Donne e magistrate contro – Ilda Boccassini e Carla Del Ponte
Leggendo il libro autobiografico di Ilda Boccassini si ripercorre la storia delle collusioni fra stato, politica e mafia, che hanno segnato l’Italia degli ultimi 30 anni
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Leggendo il libro autobiografico di Ilda Boccassini si ripercorre la storia delle collusioni fra stato, politica e mafia, che hanno segnato l’Italia degli ultimi 30 anni
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Leggendo il libro autobiografico di Ilda Boccassini si ripercorre la storia delle collusioni fra stato, politica e mafia, che hanno segnato l’Italia degli ultimi 30 anni
Per motivi di sicurezza e per diversi anni, sotto la sua abitazione stazionava giorno e notte una volante con a bordo due agenti di polizia. Arrivavano lettere anonime di minaccia, di insulti, di malaugurio. Ma i peggiori nemici, comunque, restano quei magistrati che si sono gettati sul filone “paladina dell’Antimafia”, a totale disposizione di mafia e politica. Il capo della sanguinaria mafia corleonese riceveva somme di denaro provenienti da Silvio Berlusconi, e quando questi annunciò la sua ‘discesa in campo’ come leader di Forza Italia vincendo le elezioni, nominò, alla Difesa, Cesare Previti, l’avvocato romano della Fininvest, a lui vicinissimo e assolutamente fedele.
Ilda Boccassini accettò di entrare nel pool di Mani Pulite, ed ebbe un ruolo determinante nell’arresto, per corruzione, del giudice Squillante, foraggiato coi fondi neri di Berlusconi.
La documentazione sui conti bancari elvetici in cui finiva denaro occulto fu favorita dal grande impegno di Carla Del Ponte, procuratrice generale della Confederazione. “A Carla mi legava – e mi lega tuttora – un rapporto di sincera amicizia. È una donna dotata di grande energia e capacità non comuni. Con Carla ho diviso l’affetto e la stima per Giovanni Falcone. Carla era a Palermo anche il giorno del fallito attentato, e tra le ipotesi non venne escluso che potesse essere lei tra i destinatari del borsone di dinamite ritrovato sugli scogli. Giovanni me ne parlava elogiandone le grandi qualità. Era una donna spiritosa, solare, sotto certi aspetti più ‘meridionale’ che ‘svizzera’. Lo dimostra il fatto che la puntualità non sia il suo forte.”
Una svolta importante nelle indagini fu l’individuazione di una banca di Bellinzona nella quale l’avvocato Attilio Pacifico, il “Clark Gable della Brianza” già marcato stretto dagli agenti italiani, era stato visto entrare. Titolare della banca era il cittadino elvetico Dionigi Resinelli, proprietario – tra l’altro – di una bella villa in Sardegna. Il banchiere si era blindato in Svizzera guardandosi bene dal fare anche un solo passo oltreconfine. Ma si avvicinava la bella stagione e lui commise l’errore di lasciare Bellinzona per sdraiarsi sulla sabbia bianca dell’isola. La polizia riuscì così a notificargli la convocazione del tribunale di Milano. Naturalmente mister Resinelli pensava di potersi trincerare dietro la cortina del segreto bancario, ma poi cedette, e cominciò a spiegare per filo e per segno l’identità di sigle, numeri e nomi di comodo di quei conti esteri.
Nel corso delle perquisizioni nello studio di Pacifico, si rinvenne la cedola di un versamento di 241 milioni di lire su un conto della Banca commerciale di Lugano intestato alla vedova di Nino Rovelli, deceduto pochi anni prima a Zurigo. Da lì gli inquirenti scoprirono una tangente pari a 66 miliardi e 789 milioni di lire. L’invio della rogatoria in Svizzera per l’individuazione del conto presso la Banca commerciale di Lugano avvenne alla presenza della Del Ponte, oltre che dei legali della famiglia. Pacifico aveva bussato alla casa della vedova aggiungendo che anche due suoi colleghi, Cesare Previti e Giovanni Acampora vantavano a loro volta dei crediti dal defunto e consegnarono degli anonimi pezzi di carta con su stavano scritti i nomi delle banche e i numeri dei conti cifrati sui quali avrebbe dovuto versare le somme richieste. E i pagamenti, infatti, furono eseguiti, ovviamente estero su estero, per eludere il fisco italiano. La tangente – perché di questo si trattava – era stata versata in franchi svizzeri. A Pacifico erano andati 28,500 milioni di franchi, ad Acampora 10 milioni, a Previti 18 milioni.
Nel giugno del 1994, Cesare Previti fu dunque nominato ministro della Difesa e giurò fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica; in realtà era già un evasore, un corruttore di magistrati. E non è poi diventato ministro della Giustizia, come avrebbe voluto Berlusconi, solo per la decisa opposizione dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Giovanni Acampora, invece, negli anni 70 era un ufficiale della guardia di finanza incaricato di eseguire verifiche presso importanti società, Fu lui, per esempio, che passò al setaccio le posizioni del gioielliere Paolo Bulgari, di Antonio Lefebvre d’Ovidio (coinvolto nello scandalo Lockheed). Ma poi, col tempo, passò su altri fronti fino ad arrivare a dimettersi dalle Fiamme gialle per dedicarsi invece all’avvocatura. Tra i clienti del suo studio legale compare naturalmente anche il gruppo Fininvest.
Nel 1983, quando venne arrestato, Acampora era già un libero professionista che navigava nelle acque torbide del malaffare romano. E quando il magistrato torinese Mario Vaudano avviò l’inchiesta sullo scandalo dei petroli (da cui spuntarono anche i nomi di Donato Lo Prete e Raffaele Giudice) bastò poco perché il fascicolo venisse scippato dal tribunale di Roma grazie all’iniziativa di Renato Squillante, giudice che aveva accumulato ricchezze incompatibili con il suo status.
“Altro che Roma porto delle nebbie! Nel palazzo di giustizia della Capitale operava una consorteria togata disponibile alla corruzione, in grado di truccare le carte e di garantire esiti giudiziari e impunità o, alla peggio, di trascinare i processi per tempi lunghissimi fino ad assicurare la prescrizione”. I media, in primo luogo quelli controllati da Berlusconi, si sono esercitati a lungo in una campagna denigratoria contro la Boccassini. Il tutto accompagnato dalla richiesta reiterata di sospensione dalle sue funzioni. Nonostante molti bastoni tra le ruote, con un’inchiesta sempre più incisiva fu possibile portare alla luce due società svizzere facenti capo a Cesare Previti, che peraltro non perdeva occasione per rilasciare dichiarazioni o comparire in televisione recitando il ruolo del perseguitato politico e chiamando in causa anche il procuratore federale svizzero Carla del Ponte che aveva interrogato l’amministratore delle due società elvetiche. Resta il fatto che pochi anni prima sul conto “Rowena” della Società Bancaria Ticinese di Bellinzona, intestato al magistrato romano, sono stati accreditati 434.404 dollari dal conto “Mercier” dello stesso Previti.
Del resto, il senatore era già reo confesso di evasione fiscale, per aver incassato oltre 21 miliardi di lire dagli eredi Rovelli, sul conto 136183 della SBS di Ginevra, mentre il Cavaliere è al centro, nel 1991, del trasferimento di 91 miliardi di lire, imboscati a San Marino e ‘scaricati’ a Segrate, dove il fedelissimo ragionier Scabini, tesoriere centrale del Biscione, consegnava pacchi di banconote a spalloni che portavano in Svizzera 500 milioni alla volta. È accertato che attraversavano anche tre volte al giorno la frontiera col nostro Paese. Berlusconi paragonò l’attività processuale all’arrivo della “cavalleria” delle “toghe rosse” e invocò l’intervento del presidente della Repubblica perché stigmatizzasse la persecuzione mirante ad “azzopparlo nella corsa elettorale”.
Affermazioni che ripeteva in ogni occasione, amplificate dall’eco dei suoi aficionados e dal martellamento dei suoi media. Nel 2001 Berlusconi vinse di nuovo le elezioni e, tornato a Palazzo Chigi, fece subito approvare dalla sua maggioranza la prima legge ad personam che dichiarava non utilizzabili prove che giungessero dall’estero, benché dalla Svizzera fossero arrivate ampie conferme su quanto era emerso dall’inchiesta. Clamoroso il falso pubblicato da “Panorama” (fidato settimanale berlusconiano) che rivelava un incontro tra Ilda Boccassini, Carla Del Ponte e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid, per trovare il modo di arrestare Berlusconi. La notizia, ripresa anche dal “Giornale” era totalmente inventata: Carla Del Ponte si trovava in un’altra parte del mondo e Ilda Boccassini da tempo non si recava più a Lugano. Resta noto poi anche uno scontro personale con Berlusconi, al processo per le vicende Imi-sir e Lodo Mondadori, quando in tribunale Ilda Boccassini chiese spiegazioni al Cavaliere a proposito dei fondi neri accumulati all’estero dalle sue aziende. Gli avvocati difensori dissero che purtroppo il presidente doveva abbandonare l’udienza, richiamato dai suoi impegni istituzionali e lui, scuro in volto, se ne andò.
Poco dopo il Parlamento votò un’ennesima legge blocca-processi che prevedeva che le cinque più alte cariche dello Stato non avrebbero potuto subire processi nel corso del loro mandato.
Nel febbraio 2010 Ilda Boccassini fu nominata capo dell’Antimafia milanese. In una retata furono arrestati duecento presunti ’ndranghetisti. In quegli otto anni di attività antimafia scoprì che l’imprenditoria lombarda non ha subìto la ’ndrangheta, ma si è attivamente spinta a fare affari con essa, fino a prendere l’iniziativa e a ricavarne dei vantaggi, per esempio nel recupero crediti o nello smaltimento illecito e a buon mercato dei rifiuti industriali. Cosa nostra non è un bubbone, è la degenerazione a livello criminale di uno stato d’animo diffuso tra tutti i ceti.
Non immaginava, però, Boccassini, che di lì a poco avrebbe dovuto rivivere l’incubo di fronteggiare ancora una volta Silvio Berlusconi. Viene infatti chiamata ad occuparsi delle cosiddette “cene eleganti” di Arcore e degli ormai famosi rituali ludico-erotici del “bunga bunga”. Grazie ai buoni uffici di Lele Mora e di Emilio Fede anche “Ruby”, piacente e ambiziosa ragazza marocchina, era sbarcata sul “Pianeta Arcore”. Nella casa genovese di Ruby viene ritrovato un foglietto in cui si trova scritto, tra l’altro, “da Berlusconi 4,5 milioni di euro”. Il fidatissimo ragionier Spinelli, ritirava ogni lunedì i contanti necessari. In quel 2010 prelevò 12 milioni di euro cash, per regali e acquisto di appartamenti destinati a giovani donne compiacenti e disponibili a tutto. Il caso emerge ben presto e mette in luce, fra i vari tristi aspetti legali, anche come Berlusconi ritenesse di poter sempre godere della totale impunità, in qualsiasi circostanza.
Significative le parole conclusive di Ilde Bocassini: “L’avversione nei miei confronti da parte di alcuni ambienti politici e dell’opinione pubblica, si manifestò nuovamente con la solita virulenza. Stavolta, la mia colpa era indagare sulla vita di un uomo pubblico, mettendone a nudo distorsioni e perversioni.
Lavorare al caso Ruby non è stato piacevole. Queste ragazze, anche diplomate e laureate, sono l’angosciante prodotto di trent’anni di cultura dozzinale, in cui l’ambizione massima è un’ospitata in mediocri trasmissioni tv. – Al termine del processo Berlusconi fu condannato a sette anni di reclusione. La sentenza fu ribaltata in secondo grado. La Cassazione confermò l’assoluzione.
Gli ultimi anni in procura non sono stati esaltanti. Cessata la funzione di delegato distrettuale, si sono velocemente defilate tutte quelle persone che per otto anni mi avevano cercata, anche con insistenza, per avermi ai loro convegni, seminari; professori universitari, scrittori, giornalisti, avvocati sono spariti nel nulla, dall’oggi al domani.
Resistere alle lusinghe del potere, respingerne gli attacchi, rinunciare al carrierismo è una strada possibile. Sono convinta che le giovani donne magistrato del futuro potrebbero fare la differenza se sapranno smarcarsi dai falsi miti, dai cattivi maestri e dalle cattive maestre.”
Le citazioni sono tratte dall’opera citata
Nell’immagine: Ilda Boccassini e Carla Del Ponte
Intervista a Cristina Zanini
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