Donna e africana: guiderà l’OMC
Il difficile compito di rimettere in moto la macchina dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, e magari anche di riformarla
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Il difficile compito di rimettere in moto la macchina dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, e magari anche di riformarla
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Il difficile compito di rimettere in moto la macchina dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, e magari anche di riformarla
In pochi giorni Washington è tornata nel Consiglio per i diritti umani, è rientrata nell’Organizzazione mondiale della Sanità, e infine ha sbloccato la nomina della nuova direttrice dell’Organizzazione mondiale del Commercio, la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala.
Ma quello che potrebbe sembrare una curva a U del presidente Biden riguarda principalmente se non quasi esclusivamente il sistema multilaterale in cui gli Stati Uniti vogliono tornare a contare. Già, perché come ci ha confessato un giorno un ex consigliere federale che ha conosciuto l’ONU da vicino «la storia ci insegna che gli assenti hanno sempre torto». E si sa, agli Stati Uniti non piace affatto avere torto.
Eppure, il problema principale per cui l’amministrazione Trump aveva deciso di andarsene è ancora lì inntutto il suo splendore. E il problema si chiama Cina.
Meglio presidiare i corridoi, le sale e le commissioni dove si corre il rischio di decidere qualcos – deve aver pensato Biden – che lasciare spazio a Pechino. E soprattutto, meglio non ripetere gli stessi errori commessi ad esempio in Africa, un intero continente lasciato sguarnito delle necessarie attenzioni per più di un decennio col risultato che Pechino ha fatto man bassa di materie prime e ha trovato sponde politiche un po’ ovunque.
E allora forse non è un caso se oggi a dirigere l’Organizzazione mondiale del commercio ci sia proprio una donna africana, doppia cittadinanza, nigeriana e statunitense, studi ad Harvard e al MIT, 25 anni ai massimi vertici della Banca mondiale, membro del consiglio di amministrazione della potente alleanza pro-vaccini Gavi Alliance e in quello del social network Twitter.
Ngozi Okonjo-Iweala, originaria di un’ex colonia britannica e quindi anglofona, è stata infatti il compromesso migliore per Biden, ma il peggiore per Trump. Gli Stati Uniti di Mr Donald puntavano infatti sulla sudcoreana Yoo Myung-hee, unico paese insieme a Seul a sostenerla contro gli altri 162 membri dell’OMC.
La solita politica del «tutto o niente» insomma: nominare una sudcoreana alla direzione impedendo a un altro asiatico (per essere chiari, alla Cina) di avere uno dei quattro vicedirettori, o bloccare tutto sfruttando il fatto che il direttore viene nominato per consenso e non per maggioranza.
Ma Trump non aveva fatto i conti col popolo statunitense che lo scorso 3 novembre gli ha detto chiaro e tondo: «Donald, you are fired!».
Ora tocca dunque alla 66enne Ngozi Okonjo-Iweala resuscitare l’OMC dagli inferi dell’indifferenza. Troppo severo? Facciamo il punto. L’OMC è stata il tempio della globalizzazione, ma da almeno una decina di anni è incapace di portare a termine una qualsivoglia negoziazione, da vent’anni discute per abolire i sussidi alla pesca, e dal 2006 assomiglia sempre più a un vecchio pugile che non ha sentito la campanella dopo il KO tecnico suonata appena dopo il fallimento dell’Agenda di Doha. Dal 2019, inoltre, non è più in grado di risolvere le controversie commerciali tra i paesi, e questo per l’opposizione degli Stati Uniti che non permettono di nominare i quattro arbitri mancanti (su sette) all’organo di ricorso delle dispute commerciali. Mancanza di personale, direbbero i manager. Mancanza di politica, tutti gli altri.
Un’impresa titanica dunque quella che si trova davanti Dr. Ngozi Okonjo-Iweala. Anche per chi come lei è riuscita a regolare da ministra delle Finanze il mercato petrolifero in Nigeria tra il 2003 e il 2006, come raccontato in un libro il cui titolo oggi ha il sapore dell’antipasto: Reforming the Unreformable. Lessons from Nigeria (The MIT Press, 2012). Titanico, dicevamo, anche per chi ha vissuto il rapimento della madre come atto di ritorsione durante quegli anni o ha combattuto la corruzione nel proprio paese subendo poi però dure critiche per non avere fatto abbastanza (Fighting Corruption Is Dangerous, The MIT Press, 2020).
Dalla sua, non ha solo esperienza e competenze, entrambe riconosciute da tutti, ma almeno per ora anche l’appoggio degli ambasciatori. A mancarle semmai è stato il benvenuto di certa stampa svizzero-tedesca che all’indomani della sua nomina ha maldestramente titolato «Diese Grossmutter wird neue Chefin der Welthandelsorganisation» («Questa nonna sarà la nuova direttrice dell’OMC»). Apriti cielo. Uno scivolone del gruppo CH Media subito corretto e accompagnato dalle scuse, ma che non ha fermato l’invio di una lettera di protesta sottoscritta da 124 fra ambasciatrici e ambasciatori al gruppo editoriale: “ci domandiamo se CH Media – scrivono i diplomatici – ritenga davvero utile per la politica internazionale svizzera descrivere personalità in modo così dispregiativo”. E come dar loro torto? Insomma, si è sfiorata la crisi diplomatica. Niente male per un inizio.
Ma la stampa svizzero-tedesca non si è fermata qui. Il Tagi ha rincarato la dose qualche giorno più tardi. «Più di cento ambasciatori a Ginevra si rendono ridicoli» è il commento del giornalista dell’anno 2015, corrispondente da Palazzo federale, Markus Häfliger, che un po’ come il bambino colto con le mani nella marmellata, ha stoppato e rilanciato la palla nel campo avversario, rimbrottando alla categoria degli ambasciatori i loro presunti crimini di genere in patria: «la lettera di protesta – scrive Häfliger – diventa davvero discutibile quando si guarda l’elenco dei firmatari. Dove si trovano anche i rappresentanti di Sudan, Egitto, Ciad, Marocco, Niger, Mali, Mauritania e altri paesi che sono in fondo alla classifica mondiale sull’uguaglianza di genere del Forum economico mondiale e dove essere chiamata “nonna” è il problema più piccolo che può capitare a una donna.» Di male in peggio. Secondo un tortuoso cammino del politically scorrect all’indietro. Come quegli azzeccagarbugli che dietro a uno slancio retorico volutamente esagerato cercano di coprire l’errore del proprio cliente con una generica accusa senza nomi e senza fatti circostanziati, ma semplicemente ribadendo l’inferiorità dei costumi e delle origini altrui. Un capolavoro, non c’è che dire, chapeau.
Stampa svizzero-tedesca parte, alla nuova direttrice non mancheranno poi resistenze interne all’organizzazione; dopo ormai una decina di anni di letargo, non tutti vorranno uscire dalla propria tana. Ce lo hanno fatto chiaramente capire nei corridoi dell’OMC quando abbiamo avuto l’opportunità di intervistare la nuova direttrice Ngozi Okonjo-Iweala. La prima intervista concessa a una televisione nel primo giorno in cui ha preso funzione diffusa sulla RSI e sulla RTS.
Insomma, non sarà facile rimettere in moto la macchina, e sarà ancora meno facile riformarla. Gli Stati Uniti hanno accettato un compromesso, difficile che accettino però il cosiddetto sistema di conciliazione incaricato a dirimere le controversie (non chiamatelo «tribunale» o «corte» se parlate con qualche collaboratore dell’OMC, vi fulminerà all’istante). E questo ancora una volta per lo stesso, identico motivo: gli Stati Uniti non amano avere torto. Ancor meno quando a dar loro torto sono alcuni «giudici» di un’organizzazione internazionale come l’OMC (vi ricorda qualcosa?). Un’organizzazione che, come tante altre agenzie ONU, gli Stati Uniti hanno spesso trattato come il lupo tratta l’agnello, almeno fin quando non è arrivata Pechino. Un’idea di multilateralismo un po’ peloso, direte voi, certo. Ma cosa volete farci? Son fatti così.
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