Incertezza, condizione di vita
L'emergenza sanitaria, con il suo corollario di morti, deve farci recuperare la coscienza della nostra fragile finitudine
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L'emergenza sanitaria, con il suo corollario di morti, deve farci recuperare la coscienza della nostra fragile finitudine
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L'emergenza sanitaria, con il suo corollario di morti, deve farci recuperare la coscienza della nostra fragile finitudine
C’è in giro una vertigine assolutoria per i comportamenti in deroga ai protocolli sanitari. I capricci dei ragazzi, degli sciatori, di amanti dell’aria aperta o delle bevute in compagnia, financo dei malati di shopping compulsivo, ricevono quotidiane giustificazioni da parte di pensosi esperti, che agitano spettri di drammi collettivi derivanti dall’impossibilità di perpetuare in pandemia gli stessi stupidi comportamenti adottati prima dell’emergenza. L’altro giorno ho sentito un pacioso e quadrettonato Freud locale discettare, in modo un po’ criptico e confuso, del tema della paura come legittimante chiave di lettura di quei comportamenti.
Come ho detto alcuni giorni fa, i veri elementi dominanti di questa stagione sono, più della paura, l’egoismo e il capriccio. Se è vero, come è vero, che da questa situazione usciremo diversi (non: migliori), mi auguro che questa diversità si possa leggere in comportamenti improntati a maggiore riflessione, a sobrietà e a solidarietà. Ma non ci credo troppo; le reazioni alle aperture dei negozi stanno scatenando il peggio, con utenti compulsivi ai blocchi di partenza per riscatenare l’inferno del consumo scellerato, con in più una bella dose di pseudo-giustificazioni dettate dalla passata astinenza dal superfluo.
Quello di cui dubito molto è che questa situazione ci permetta di fare i conti con il nostro generale rifiuto dell’incertezza. L’uomo ha da sempre convissuto con esiziali e quotidiane minacce (violenza, epidemie, carestie, crisi economiche, guerre); minacce che non ne hanno frenato lo slancio, in molti casi hanno addirittura nutrito la dinamica dello sviluppo. È dalla seconda metà del secolo scorso che il mondo occidentale ha beneficiato di un inedito periodo in cui tali minacce sono sparite del tutto (in Svizzera, addirittura da molto prima, non troppo esagerando direi da Marignano), ciò che ha alimentato l’illusione che il futuro fosse foriero solo di gioie e di belle promesse, una strada in discesa costeggiata di prati fioriti, con i figli puntualmente più ricchi dei loro genitori. La pandemia ci ha riportato in una situazione di incertezza che, a ben vedere, non è altro che il ripristino di una millenaria normalità, alla quale abbiamo fatto in fretta (et pour cause…) a disabituarci.
Vediamo di capirlo e di comportarci di conseguenza, non alimentando la fallace speranza che sia possibile vivere senza rischi, e magari in eterno. È possibile morire, anche prima del tempo; è sempre successo, e va molto bene così. L’emergenza sanitaria, con il suo corollario di morti, deve farci recuperare la coscienza della nostra fragile finitudine, un memento mori che dovrebbe far vedere (anche ai laici, senza quindi le consolazioni offerte dalla religione) questo inevitabile esito non come una sciagura o come una tragica condanna, ma come un epilogo ovvio; questa coscienza ci permetterebbe di vivere in modo più consapevole, in questa nostra microscopica parentesi di esistenza schiacciata tra un passato prima di noi e un futuro dopo di noi.
Invece di ascoltare pifferai un po’ tromboni, leggiamoci Lucrezio, che è molto meglio.
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