La scuola come istituzione, non come servizio
Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato
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Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato
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Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato
Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».
Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (1997), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».
Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».
Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.
Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.
Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.
Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…
Con tutto ciò questa scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.
Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.
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