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C’è chi (sul quotidiano “Domani”) ha voluto ricordare un passaggio de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli: “I capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no: se lo sono non ne puoi fidare, perché sempre aspirano alla grandezza propria o con l’opprimere te…. ma se non è il capitano virtuoso, ti rovina comunque per l’ordinario”. Cinque secoli dopo il monito del filosofo fiorentino la sua raccomandazione sembra aderire piuttosto bene ai duellanti Putin e Prigozhin, e al tentato “golpe” del capo Wagner, putsch di sole 24 ore ma che ha fatto rabbrividire non solo la Russia. Il populista Prigozhin – un passato anche criminale, un presente iper-populista, e un’ambizione personale smisurata – non è certo il “capitano virtuoso” a cui un leader saggio dovrebbe affidare parte delle sue fortune militari. “Lo principe” Putin si è di nuovo rivelato incapace di capirne temperamento e obiettivi, nonostante da diversi mesi il capo mercenario bombardasse di critiche e insulti il ministero della difesa e il capo supremo dell’esercito russo. Un altro grosso errore di calcolo, dopo quello clamoroso di inizio guerra – la facile e rapida conquista di Kiev – e quello successivo sull’entusiasmo dei russofoni ucraini che avrebbero dovuto osannare, ma non lo hanno proprio fatto, il salvifico intervento dei “liberatori”.

Vedremo se – pur provenienti da trascorse e anche contrastanti analisi – la maggioranza degli analisti hanno ragione nella comune convinzione e previsione che quella di ieri sia stata una giornata di conclamata e irreversibile fragilità per Putin. Ore da incubo, che comunque ne hanno svelato l’attuale debolezza. La decisione di negoziare con un “traditore che ha pugnalato alle spalle la nazione”; la necessità di affidarsi al bielorusso suo “subordinato” Lukashenko per una trattativa che deve garantire l’impunità del “nemico” accolto nell’esilio di Minsk; la contro-narrazione fatta dall’ex “cuoco di Putin”, per cui la guerra d’Ucraina non è stata voluta dalla Nato e che a Kiev non comanda una banda di neo-nazisti; la facilità con cui i carri armati della Wagner hanno percorso in tutta tranquillità ben cinquecento chilometri sull’autostrada Rostov-Mosca portandosi fin quasi alle porte della capitale impaurita, il fatto che nonostante gli ordini del Cremlino nessun reparto dell’esercito russo abbia provveduto a contrastare in armi la sovversiva “marcia della libertà”, l’empatica tranquillità di numerosi civili lungo il tragitto, l’inverosimile filmato in cui il “ribelle” dialoga tranquillamente su una panchina di Rostov (città del quartier generale delle truppe russe in Ucraina) con il vice-ministro della difesa, le risibili immagini delle ruspe che provvedono a scavare fossati sulla strada della progressione “wagneriana” per ricoprirli subito dopo. È una successione di segnali inequivocabili sulle difficoltà interne dell’attuale leadership post-sovietica, ferite che restano sul corpo dello “zar”, non ideali per l’immaginario collettivo russo nei confronti di Putin.

Si può temere che addirittura altri “corpi” della composita Federazione traggano insegnamenti e ispirazione per ritagliarsi ruoli e spazi di maggior autonomia nei confronti della centrale moscovita. Si pensi alle regioni periferiche e più povere dell’impero costrette a inviare i propri giovani al fronte. Oppure al capo ceceno Ramzan Kadyrov (autentico criminale di guerra nelle sue terre caucasiche), in passato anch’egli critico sui disastri della condotta dei reparti russi, il quale prima o poi potrebbe presentare il conto del suo impegno a Putin (che ha cercato di acquietarlo nominandolo generale della Federazione). E ancora al fatto che il fondatore della Wagner, costantemente in polemica col ceceno, ha sempre sostenuto che Kadyrov non può essere considerato un patriota russo, rivendicandone l’esclusività etnica fra le milizie associate. Messaggio certo poco confortante per altre componenti extra-russe del mosaico federale.

Rimane, per l’Occidente, l’interrogativo: che fare con il “Putin ridimensionato” anche agli occhi del mondo? Molto opportunamente i quartieri generali dell’Occidente (Bruxelles per UE e Nato, più Washington) si sono sostanzialmente limitati a definire “fatti interni” le ore più buie per la “verticale” del Cremlino. Sarebbe stato un errore definirli altrimenti, a prescindere dal rituale, rinnovato, giusto sostegno all’Ucraina. Potrebbe essere un buon messaggio per Putin (o per un eventuale, ma non vicino, dopo-Putin) nell’intreccio dei fin qui sterili tentativi di venire a capo della guerra russa di aggressione. Detentrice del più importante arsenale mondiale di armi atomiche (seimila testate), una destabilizzazione caotica e anarchica del paese diverrebbe un rischioso scenario anche al di qua della nuova “cortina d’acciaio”. Da tempo un regime change a Mosca non è nell’agenda delle diplomazie americana ed europea.

Ma è un Occidente che sulla questione deve fare i conti anche con le sue diverse sensibilità e differenze interne, se non proprio con le sue nette linee di faglia. I paesi baltici e la Polonia – più sensibili ai timori suscitati dagli istinti imperiali e di recupero del passato di grande potenza – sono meno convinti della strategia di non puntare esplicitamente, con azioni dirette e concrete, al rinnovamento anche traumatico a Mosca. Sarebbe un errore. Potrebbe fornire a Putin una leva per risollevare la sua immagine, per riconsolidare la propria leadership. E gli servirebbe come il pane per ricompattare un’opinione pubblica russa oggi meno sicura del suo potere e della sua efficienza. Meglio dunque indebolito, ma ancora in sella. Si vedrà come, e fino a quando.

Nell’immagine: Prigozhin (al centro) dialoga con gli emissari russi a Rostov






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