“È per rinascere che siamo nati”
Il cristianesimo ci ripropone ogni anno, nell’incanto della memoria storica, religiosa e della festa comunitaria, familiare, il richiamo alla nascita, il tempo della natalità
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Il cristianesimo ci ripropone ogni anno, nell’incanto della memoria storica, religiosa e della festa comunitaria, familiare, il richiamo alla nascita, il tempo della natalità
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Il cristianesimo ci ripropone ogni anno, nell’incanto della memoria storica, religiosa e della festa comunitaria, familiare, il richiamo alla nascita, il tempo della natalità
Quel brano è di Hannah Arendt, storica e filosofa tedesca (1906-1975), ebrea, sfuggita al nazismo, rifugiatasi negli Stati Uniti, tra i più influenti teorici politici del XX sec. È una delle espressioni più profonde del senso del Natale. E Hannah Arendt è anche un poco “nostra”: passava le sue vacanze estive in Ticino, a Tegna.
Natale, festa di fede e di speranza, ma- radicando la Arendt la “facoltà dell’azione” nel “fatto della natalità” – è anche festa di libertà, che dà sapore e specificità alla vita umana. “Initium…ergo ut esset creatus est homo”: così Hannah amava citare Sant’Agostino, l’ autore cui aveva dedicato la sua tesi di laurea (“Der Liebesbegriff bei Augustin”, Il concetto d’amore in Agostino). L’uomo è stato dunque creato affinché ci fosse un inizio. Nasciamo non per morire, ma per incominciare, per rendere nuove di continuo tutte le cose grazie alla nostra libertà e nonostante gli imprevisti ch’essa può portare sempre con sé. Ed è questo, quindi, il grande dono di Natale.
Sembra farle eco il poeta Pablo Neruda, che affidò ad uno dei suoi versi quel compito: “E’ per rinascere che siamo nati”. E lo dice quasi volesse toglierci dalla incantazione dei buoni sentimenti con cui cerchiamo ogni anno, in questi tempi, di recitare la bontà, la serenità, la generosità, la fratellanza, la pace.
La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo. Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità, scrive un altro filosofo, a noi vicino, Umberto Galimberti (in Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto e ancora Le parole di Gesù, libri usciti entrambi presso Feltrinelli). Quella parola, greca, frequente nella teologia cristiana (sia cattolica, sia protestante) è “éschaton”. Che nella direzione dello spazio significa “lontano” e nella direzione del tempo significa “ultimo”. Un tempo fuori portata, dunque, dove solo alla fine può apparire il fine di tutto ciò che è accaduto (che si farà storia).
Il cristianesimo genera quindi una temporalità che è assoluto futuro e proietta la salvezza in quel possibile futuro a cui si agganciano sia l’utopia sia la rivoluzione. Per lontane che sembrino, utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo dopo Cristo (post Christum natum), scavano il motivo della speranza e della rinascita, sondano la possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso.
Siamo stati sedotti da questo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria (e quanta utopia e rivoluzione troviamo nei Vangeli!), celebriamo nel Natale non il ritmo del ritorno, ma l’atmosfera della rinascita, l’entusiasmo di ciò che è ancora in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
Il Natale non è nato per la confezione dei buoni sentimenti né, tanto meno, per la gloria dei consumi. In gioco c’è l’uomo e la sua storia guardati da un punto di vista molto esigente; è il punto di vista per cui, appunto, “nascere non basta; è per rinascere che siamo nati”.
Nell’immagine: Hannah Arendt a Tegna
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