Storia di un partigiano “diverso” dagli altri
Nel giorno anniversario della Liberazione italiana dal nazi-fascismo, una “vicenda-simbolo” assai poco conosciuta
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Nel giorno anniversario della Liberazione italiana dal nazi-fascismo, una “vicenda-simbolo” assai poco conosciuta
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Nel giorno anniversario della Liberazione italiana dal nazi-fascismo, una “vicenda-simbolo” assai poco conosciuta
Lo aveva deciso influenzato da un suo professore di liceo, Pilo Albertelli, che nel marzo 1944 pagò il suo anti-fascismo nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (morti 335, soprattutto civili, selezionati uno a uno dai ‘repubblichini’ alleati dei nazisti), rappresaglia tedesca per l’attentato di Via Rasella: 33 soldati del Führer uccisi, quelli che l’attuale presidente post-fascista del Senato, Ignazio La Russa, ha definito “una banda musicale di semi-pensionati”, in realtà militari nazisti della “Bozen” alto-atesina, nelle cui mani cadrà alla fine il protagonista di questa storia.
Con molto coraggio (racconteranno i suoi compagni), nelle fila dei gruppi politicamente vicini ai gobettiani di “Giustizia e Libertà”, partecipò inizialmente alle azioni per la liberazione della capitale. Ne uscì illeso. Avrebbe potuto finirla lì, la sua lotta di liberazione. Decise invece di continuare a combattere contro i carnefici della Shoah e contro quelli che in Italia li avevano assecondati con le leggi razziali prima e poi con le strazianti deportazioni dal ghetto di Roma, il più antico della diaspora europea. La sua ossessione, l’anti-razzismo.
L’Italia del Nord era ancora sotto occupazione. Si arruolò nella “Special Force” delle forze alleate. Venne paracaduto nella regione di Biella, dove partecipò a diverse azioni di sabotaggio. Il 17 gennaio 1945 – mentre in molti villaggi si moltiplicavano le stragi di civili da parte di tedeschi in ritirata – venne catturato e trasferito a Villa Schneider di Rho, quartier-generale dei nazi-fascisti di tragica memoria. Venne costretto a leggere in radio un proclama contro la Resistenza. Seduto davanti al microfono, cominciò con queste parole: “Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non identificabile con dittature simili a quella fascista che ho deciso di combattere”. Bloccato, picchiato, subito deportato nel campo di Gries, proprio quello gestito dalla “Bozen” della pattuglia attaccata in via Rasella.
Per il Terzo Reich si avvicinava la fine. E lui venne liberato in un raid alleato. Ma di nuovo decise di proseguire. Il “lavoro” non era finito. Riprese la lotta partigiana nelle valli del Trentino. Anche lì i nazi-fascisti mettevano ancora in atto feroci rappresaglie.
Si portò in Val di Fiemme per evitare l’ennesima mattanza. E fu così che morì: in quella che viene ricordata come la strage di Stramentizzo. Storicamente, fu l’ultima rappresaglia tedesca in Italia.
Il suo nome era Giorgio Marincola. Aveva trascorso l’infanzia presso gli zii in Calabria, prima di raggiungere il padre a Roma. Padre che aveva avuto Giorgio, oltre a una bambina, da una donna etiope quando era militare nel paese africano colonizzato da Roma, tassello del nuovo traballante e feroce italico impero. Uomo di principi e di coraggio, l’uomo aveva riconosciuto i due figli (molti altri non l’avrebbero fatto), aveva garantito loro la sua nazionalità, e se li era portati in Italia.
Giorgio aveva la pelle scura. Il primo africano. Il “partigiano nero” della Resistenza.
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