Ecologia, dittatura e mondiali di calcio
Il vertice sul clima in un paese governato dalla dittatura, e il Mondiale di calcio in un Qatar diventato un cimitero di operai stranieri e sfruttati
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Il vertice sul clima in un paese governato dalla dittatura, e il Mondiale di calcio in un Qatar diventato un cimitero di operai stranieri e sfruttati
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Il vertice sul clima in un paese governato dalla dittatura, e il Mondiale di calcio in un Qatar diventato un cimitero di operai stranieri e sfruttati
Egli, con lungimiranza, ne individuava già tutta una serie: lo scarto vieppiù crescente fra i “molto ricchi” e i “molto poveri”; le condizioni ambientali del pianeta; il trattamento riservato a “sans-papiers”, immigrati, Rom; la corsa al “toujours plus”; la competizione imperante e incalzante; la dittatura e l’avidità dei mercati finanziari.
Nel frattempo, il battagliero vecchietto se ne è andato, si è spento nel 2013, ma il suo messaggio rimane di grande attualità e valore. E oggi, non mancano certo motivi per indignarsi.
Si pensi, per esempio, alla cosiddetta Cop 27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 2022 in programma in questi giorni nella patinata località di Sharm el-Sheikh in Egitto. Al di là dei notori e reiterati moniti degli scienziati, cui fanno immancabilmente da contraltare i proclami tanto roboanti quanto vacui degli emissari governativi dei vari paesi rappresentati, che non riescono a convergere verso obiettivi reali ed efficaci comuni (il “bla bla bla”, come ben sintetizzato da Greta Thunberg), la stessa riunione in terra egizia è la legittimazione di uno dei regimi più sanguinari nella repressione alla dissidenza a fare da scandalo.
In effetti, il padrone di casa, generale Abdel Fattah al-Sisi – attuale presidente egiziano e una delle figure più controverse sullo scacchiere internazionale, in quanto ha trasformato la propria conduzione in una vera e propria dittatura – si vede riabilitato agli occhi del mondo e non si lascia certo sfuggire l’occasione per apparire un capo di stato particolarmente sensibile alle questioni ambientali, nascondendo, per una breve parentesi, il suo vero volto oscuro di despota e feroce repressore di ogni forma di dissidenza (significativa la costruzione di una ventina di nuove carceri negli ultimi anni per rinchiudervi tutti coloro che ostacolano il suo potere assoluto).
Emblematica la terribile vicenda di Giulio Regeni, dottorando italiano dell’Università di Cambridge impegnato in una ricerca sul campo di carattere sociale al Cairo, rapito all’inizio del 2016 e ritrovato dopo alcune settimane senza vita nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani, con il corpo martoriato da orrende sevizie. Al-Sisi da anni prende in giro la giustizia italiana con cavilli formali e raggiri diplomatici per eludere qualsiasi responsabilità politica nell’atroce morte di Regeni, mentre continua a giocare come il gatto con il topo nel caso di Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna, scarcerato dopo 22 mesi di detenzione nelle dure carceri cairote, ma ancora impossibilitato a rientrare nel capoluogo emiliano per sostenere la tesi di laurea.
Tutto ciò alla faccia dell’opinione – del tutto condivisibile dal mio punto di vista – sostenuta da chi è fermamente convinto che non vi possa essere un sostanziale mutamento sul piano della presa di coscienza e dell’azione politica sul fronte ecologico, senza un’adeguata e parallela affermazione dei diritti umani e della giustizia sociale. ‘Scienza con coscienza’, come più volte ribadito da un altro vecchio della cultura occidentale: Edgard Morin (autore del libro Svegliamoci! / Réveillons-nous!, da poco tradotto in italiano per Mimesis e recensito da Lelio Demichelis per “Naufraghi/e” il 1° novembre scorso).
Valori peraltro largamente sbandierati negli ambiziosi Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) o Agenda 2030, decretati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: il Sedicesimo Obiettivo ONU viene denominato infatti ‘Pace, giustizia e istituzioni forti’ ed è così declinato: “Promuovere società pacifiche e solidali per lo sviluppo sostenibile, garantire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili e solidali a tutti i livelli”.
Intanto flirtiamo e diamo visibilità ai peggiori tiranni della terra … e c’è da chiedersi allora che cosa ci si possa aspettare come risultati tangibili e credibili dalle varie comunicazioni ufficiali, cariche di retorica, di questi summit, pieni di tanti nobili intenti e princìpi altisonanti, quanto privi in larga misura (almeno finora) di una effettiva volontà di dar seguito concretamente alle promesse di investimenti dichiarati a microfoni accesi dai diversi rappresentanti governativi in scena.
La Cop 27 di Sharm el-Sheikh “sta andando ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia”, come sostenuto da Naomi Klein sul “Guardian” il 4 novembre 2022.
Comunque vorrei soprattutto soffermarmi su un altro terreno, dove si dovrebbe giocare una partita all’insegna della più alta indignazione.
Mi riferisco agli imminenti Mondiali di calcio in programma fra pochi giorni in Qatar. Già l’ubicazione degli stessi, con la scelta di un paese e di un’area geografica caratterizzata da temperature torride, lascia alquanto perplessi dal profilo ambientale e dell’investimento energetico per approntare tutte le infrastrutture necessarie al fine di creare condizioni vivibili ai giocatori e all’immenso seguito di delegati, convenuti, invitati, tifosi.
Ma è specialmente un altro fattore che dovrebbe farci rabbrividire dallo sgomento e dallo sdegno, peraltro in stretta connessione con le condizioni climatiche appena evocate: secondo una clamorosa inchiesta condotta dal “Guardian” nel 2021, sarebbero almeno 6’500 i lavoratori provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka morti sull’arco di un decennio per costruire le infrastrutture calcistiche ritenute necessarie per svolgere la grande kermesse mondiale. Simile cifra non tiene conto degli infortuni sul lavoro, delle pessime condizioni igienico-sanitarie e delle malattie senza adeguate cure mediche in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori, i quali, per almeno un terzo dell’anno, sono esposti a temperature che oscillano fra i 40 e i 50 gradi a causa delle correnti desertiche, come evidenziato da un rapporto dell’ONU.
Le drammatiche condizioni lavorative non sono solo dovute agli aspetti climatici, ma anche e soprattutto al trattamento disumano – privo delle più elementari garanzie sindacali – riservato alle maestranze, tanto da spingere giornalisti e organizzazioni umanitarie a parlare apertamente di situazioni di sfruttamento “prossime alla schiavitù”. La soppressione dei diritti civili minimi è anche confermata da pratiche volte ad impedire la fuga della manodopera con la requisizione dei documenti, cui si aggiunge la riscossione di ingenti tasse o balzelli per l’assunzione.
Come scrive l’autorevole quotidiano inglese nella sua dettagliata inchiesta, se coloro che lavorano nei cantieri sono costretti a pagare commissioni che vanno dai 3.000 ai 4.000 dollari a fronte di un guadagno inferiore ai 300 dollari al mese, ciò significa che essi “devono lavorare per almeno un anno solo per pagare le tasse di assunzione”. Non c’è da sorprendersi sulle conclusioni cui si giunge: si tratta di una forma di schiavitù moderna in piena regola.
Ricordo un libro uscito una quindicina di anni fa: Kevin Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Feltrinelli (2008). La schiavitù non è affatto scomparsa, sosteneva l’autore: “oggi si stimano circa ventisette milioni di schiavi. Se ne sa però troppo poco ed è proprio l’ignoranza a favorirne sopravvivenza e diffusione. Gli schiavi sono individui privati della libertà, costretti a lavorare senza possibilità di scelta, senza tutela, non pagati, in condizioni spesso disumane. Non si trovano solo nei paesi sottosviluppati, ma sono occultati anche nelle ricche capitali dell’Occidente democratico. Gli schiavi hanno un bassissimo costo, sono “usa e getta”, rischiano la vita quotidianamente con lavori pericolosi o nella prostituzione, sono esposti a soprusi di ogni tipo, non più in base alla razza, bensì a causa della miseria”.
Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, così si è espressa: “Chiudendo un occhio sulle prevedibili violazioni dei diritti umani e non riuscendo a fermarle, la FIFA ha indubbiamente contribuito ai molteplici abusi nei confronti dei lavoratori migranti coinvolti nei progetti legati alla Coppa del Mondo in Qatar, che vanno ben oltre gli stadi e gli hôtel”. Per poi pronunciarsi a favore di un fondo minimo di 440 milioni di dollari da devolvere, da parte della FIFA, a titolo di risarcimento e per sostenere future iniziative volte a tutelare i diritti dei lavoratori.
Sempre la Callamard: “Per anni, la sofferenza di coloro che hanno reso possibile questa Coppa del Mondo è stata nascosta sotto il tappeto (…). In base al diritto internazionale e al regolamento della FIFA, sia il Qatar che la FIFA hanno rispettivamente l’obbligo e la responsabilità di prevenire le violazioni dei diritti umani e di fornire un risarcimento alle vittime. Data l’entità degli abusi subiti, il fondo di riparazione che Amnesty International e altri chiedono è del tutto giustificabile e rappresenta una piccola parte dei 6 miliardi di dollari di entrate che la FIFA ricaverà dal torneo”.
Intanto Gianni Infantino – presidente della FIFA e grande estimatore del Qatar, tanto da acquisirne la cittadinanza – sembra aver assunto un atteggiamento assimilabile a quello delle tre scimmiette, della serie: non vedo, non sento e non parlo; o meglio, per parlare parla, ma per minimizzare o negare quanto scaturito dalle inchieste giornalistiche e dalle denunce di numerose ONG, con esternazioni al limite della decenza e del grottesco. In merito al dramma dei migranti-schiavi impiegati nei cantieri allestiti per realizzare gli stadi dei Mondiali protesi verso l’Asia, ecco un assaggio dell’illuminante analisi del presidente FIFA diffusa nel corso di un intervento alla “Milken Institute Global Conference” a Beverly Hills, in California, il 2 maggio 2022: «Gli abbiamo dato l’opportunità di costruire gli stadi. Pensate che orgoglio! (…) Quando dai lavoro a qualcuno, anche in condizioni difficili, gli dai dignità e orgoglio. La costruzione degli stadi dove si giocheranno i Mondiali è pure una questione di orgoglio, avendo anche cambiato le condizioni di circa 1,5 milioni di persone [le maestranze reclutate]. Questo è qualcosa che rende orgogliosi pure noi».
Oltre ai sotterfugi e alle pressioni ad alti livelli che il Qatar ha messo in atto per riuscire ad aggiudicarsi l’organizzazione dei Mondiali di quest’anno, già ampiamente documentati dagli organi di stampa, di recente sono emersi ulteriori risvolti poco chiari ed edificanti circa pratiche di controllo ed interferenze invasive perpetrate dalla longa mano dei poteri qatarioti.
Dall’aggiudicazione dei Mondiali, l’emirato avrebbe controllato ogni movimento all’interno della FIFA, la cui sede come noto è in Svizzera, per smorzare qualsiasi tipo di critica, ricorrendo anche ad ex collaboratori della CIA. È quanto rivela un’indagine della trasmissione Rundschau della Radiotelevisione svizzero tedesca SRF, andata in onda ad inizio novembre.
A tale scopo, il Qatar avrebbe versato 400 milioni a favore della Global risk advisor, una società statunitense composta essenzialmente di ex collaboratori dei servizi segreti americani, i quali avrebbero fatto ricorso anche ad attacchi informatici per accedere ai computer e mettere sotto sorveglianza i telefoni dei dirigenti della Federazione internazionale di calcio.
Altra recente chicca, l’uscita dell’ambasciatore del Qatar per i Mondiali 2022 Khalid Salman – ex calciatore professionista –, il quale, nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente televisiva tedesca Zdf per un documentario trasmesso l’8 novembre, dopo aver affermato con una certa enfasi che ”Bisogna accettare le nostre regole”, ha definito l’omosessualità “un danno mentale”, ritenendola “haram”, vale a dire proibita secondo l’Islam, e dunque da sottrarre in particolare agli sguardi dei bambini, ma anche degli adulti, per non dare brutti esempi.
Per concludere, riprendendo l’esortazione di Stéphane Hessel secondo cui il “motivo alla base della Resistenza è costituito dall’indignazione”, che conduce a una “insurrezione pacifica”, ho deciso nel mio piccolo di boicottare la kermesse che sta per aprirsi nell’emirato arabo, rifiutandomi di guardare le partite trasmesse in TV dal Qatar, così da sottrarre almeno un minimo di audience ad uno spettacolo che ritengo poco edificante per tutto quello che nasconde dietro la sua facciata patinata.
Si tratta di un gesto minimo, anzi, minimalista, del tutto soggettivo e che sono consapevole non conti nulla e non serva a un granché; però vuole affermare, perlomeno al cospetto della mia coscienza, un dissenso etico verso un andazzo che sta prendendo piede nella gestione di uno degli sport più belli del mondo, la cui formidabile valenza agonistica di squadra (la coralità della trama di gioco) e la coinvolgente dimensione ludico-sociale (lo stare insieme per divertirsi, per tifare, per discutere sulle partite e quanto vi ruota attorno) sta per essere immolato sull’altare della macchina per fare soldi, del business a tutto campo, che non guarda in faccia a nessuno e per il quale si è disposti ad accettare qualsiasi compromesso.
Non nascondo che mi dispiace molto non seguire la nostra Nazionale che si è guadagnata un posto al sole, nei confronti della quale nutro grande simpatia e che mi piace molto per il suo carattere multietnico, addirittura allenata da un bravissimo ex-calciatore di origine turca, a sua volta ex nazionale. Mi pare un bell’esempio di integrazione riuscita e una bella immagine per la nostra gioventù e per la popolazione intera.
Ma l’indignazione, invece di restare un passeggero anelito di fastidio, sùbito sopito dal tepore del salotto e dalla comodità del divano, dovrebbe tradursi anche in qualche seppur piccolo gesto concreto di rifiuto nei confronti di chi ‘gioca sporco’, molto sporco, con la vita e la dignità altrui.
Auguri comunque ai nostri ragazzi.
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