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Risveglio
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Naufragi

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Fingersi vittime
Il meglio letto/visto per voi

Fingersi vittime

Le strategie del governo Meloni e delle destre per sviare l'attenzione degli italiani dai propri errori


Redazione
Redazione
Fingersi vittime
• 2 Aprile 2023 – Redazione
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Di Mattia Madonia, The Vision

Giorgia Meloni, con qualche mese di ritardo, si è accorta di essere Presidente del Consiglio e non più urlatrice d’opposizione. Al primo question time da premier alla Camera, la settimana scorsa, abbiamo assistito a una manifestazione della sindrome di Calimero, ovvero quel vittimismo di chi non è in grado di affrontare gli eventi e le difficoltà del ruolo che ricopre. Umberto Eco diceva che “Una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari”. Se Meloni nei primi mesi di governo aveva gioco facile, con un PD senza guida e amorfo e un Movimento Cinque Stelle interessato soprattutto a perorare la causa russa per la resa dell’Ucraina, l’arrivo di Elly Schlein ha rinvigorito l’opposizione e costretto la premier al gioco dello scaricabarile. “È colpa dei precedenti governi”, “Tutti mi attaccano” e l’intero corollario di frasi di chi pretende di insegnare all’opposizione come fare il proprio mestiere, dopo aver fatto la fortuna proprio in quel territorio. Nessuna assunzione di responsabilità per gli errori del governo: trincerarsi nel ruolo di vittima è più comodo e genera nei propri sostenitori un moto di protezione verso il leader di riferimento. È da sempre il modus operandi della destra in tutto il mondo, e purtroppo funziona.

In Italia, Silvio Berlusconi è l’esempio più calzante. Ha infatti fondato la sua carriera dipingendosi come vittima della magistratura. Anche di fronte a una condanna in via definitiva per frode fiscale, l’iter è sempre stato lo stesso: creare nemici immaginari – le “toghe rosse” – per deresponsabilizzarsi e passare come un martire. Perché è sempre colpa degli altri, che siano i poteri forti, i migranti, le banche, l’Europa oppure Soros. All’estero d’altronde l’andazzo non è dissimile. Donald Trump usa l’immagine da perseguitato per aizzare i suoi sostenitori addirittura contro le istituzioni. Ha fatto credere di essere vittima di brogli – senza prove – quando perse alle elezioni contro Joe Biden, causando l’assalto a Capitol Hill. In questi giorni è tornato al “chiagni e fotti” spettacolarizzando le sue vicende giudiziarie, arrivando persino a organizzare il suo arresto come se fosse uno show. È la prepotenza dei leader che si reggono sul culto della personalità autoimposto, come Bolsonaro che fugge dal Brasile – anche lui con l’aura da vittima – e da remoto indirizza gli umori del popolo contro Lula e le istituzioni brasiliane, o come Putin che ha invaso una nazione lasciando credere di essere accerchiato dalla NATO, con la Russia in pericolo di non si sa cosa.

Meloni, in risposta alle critiche per il suo operato, ha detto che “Si può fare opposizione politica senza dipingere gli avversari come mostri” e che il limite è “Non danneggiare l’Italia”. Stiamo parlando della stessa politica che parlava di dittatura sanitaria durante la pandemia e che ha fondato la sua ascesa sulle critiche feroci e spesso disfattiste a varie istituzioni. Ora chiede di non sporcare l’immagine dell’Italia all’estero, ma dall’opposizione definiva l’Unione Europea “un comitato di usurai”. Se adesso parla di sciacallaggio in riferimento agli attacchi per la gestione prima, durante e dopo la tragedia di Cutro, nel 2015 era la prima a chiedere per Matteo Renzi, all’epoca Presidente del Consiglio, un’indagine per reato di strage colposa in seguito a un naufragio nel Canale di Sicilia che costò la vita a centinaia di persone. È un’ipocrisia che suona stridente ma che nel Paese dalla memoria a breve termine alla fine paga. E così, inscenare un accerchiamento e mettersi nella posizione da “sola contro tutti” conferisce a Meloni lo status da intoccabile, almeno per i suoi sostenitori, che i suoi stessi antenati e maestri politici hanno sperimentato. Il MSI di Almirante si sentiva emarginato, quasi una vittima esclusa dal potere, per non aver partecipato alla costruzione democratica della Repubblica, mentre i comunisti che hanno scritto la Costituzione sì, dimenticando evidentemente la natura antifascista postbellica e la grazia ricevuta per non aver mai avuto una Norimberga italiana. Lo stesso Mussolini agì in più occasioni usando la strategia della vittima, come quando la Società delle Nazioni sanzionò l’Italia in seguito alle barbarie in Etiopia. Questo portò i cittadini a sentirsi essi stessi vittime, giustificando dunque l’operato di un dittatore.

Nel saggio Critica della vittima del professore ordinario di Lettere e Filosofia Daniele Giglioli, viene analizzata proprio la figura della vittima e la sua “sintomatologia”, che la eleva quasi a eroe del nostro tempo. Per Giglioli, il leader che si atteggia a vittima impone ai suoi sostenitori e ai suoi alleati “un patto affettivo, un’identificazione attraverso la leva potente del risentimento”. Quando questi si accorgono che i progetti non stanno andando in porto, “è necessario creare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”. Per Meloni può essere l’Europa che non contribuisce alla redistribuzione dei migranti, quando invece l’Italia è uno degli Stati dell’Unione Europea ad accogliere meno richiedenti asilo. Serve insomma un diversivo per distrarre, per non far ricordare le aberranti promesse fatte in campagna elettorale – il fantomatico blocco navale – e cancellare i dati reali, ovvero gli sbarchi triplicati rispetto all’anno precedente.

Il saggio di Giglioli delinea la figura del leader-vittima attraverso un tacito manifesto: “Io sono insindacabile, al di sopra di ogni critica, signore e padrone del vostro sguardo e delle vostre parole. Non a tutti gli enunciati possibili avete diritto: solo a quelli a me favorevoli, pena la vostra degradazione a carnefici”. E così, per Meloni, chi osa criticarla diventa automaticamente un nemico della nazione, qualcuno che vuole screditare l’intero Paese quando invece viene contestato il modo di agire del governo. Giglioli lo chiama “rancore vittimario dei vincenti” e fa la distinzione tra vittima reale e vittima immaginaria. Quella reale è tale perché impotente, mentre quella immaginaria inscena l’impotenza come condizione di cui è per diritto “proprietaria inalienabile”. La destra pretende l’alibi, addirittura il compatimento, per occultare le sue falle e far credere che siano i suoi nemici – l’opposizione – il reale pericolo per la nazione, in quanto “remano contro”, cioè quello che per sua natura dovrebbe fare qualsiasi forza d’opposizione, soprattutto di fronte a un esecutivo deficitario, che non va incontro alle esigenze dei cittadini.

Il giornalista e scrittore Roberto Gervaso, scomparso nel 2020, scriveva che “il vittimismo è un modo di sbarcar il lunario col piagnisteo”. È la più semplice delle giustificazioni e permette di saltare l’espiazione senza rendersi nemmeno conto della colpa. I mezzi usati per attuare questo processo sono spesso quelli messi in atto quando si stava dall’altra parte della barricata, ma ribaltati. Per esempio, Meloni all’opposizione rivendicava di essere una madre come ruolo di forza e responsabilità, mentre adesso, sollecitata alla Camera da Schlein, ha risposto alle critiche sulla tragedia di Cutro usando quello stesso espediente (“Sono una madre, su Cutro ho la coscienza a posto”) come arma di difesa e non più come ariete per sfondare le porte del potere. Non è più la madre urlatrice in piazza con le vene del collo ingrossate: è la madre che assolve i figli che hanno commesso un errore – Piantedosi e i suoi colleghi – e persino sé stessa. Diventa così incriticabile perché una vittima lo è per accezione intrinseca anche di fronte alle peggiori malefatte, che anzi si permette di perpetrare riparandosi dietro lo scudo del vittimismo.

Meloni non ha nemmeno l’attenuante di un passato da vittima vera: si atteggia come tale solo per mascherare le lacune di chi è arrivato al potere sfruttando la rabbia mista a rassegnazione dei cittadini esausti dopo le crisi degli ultimi anni, e ora non sa come replicare a chi le sbatte in faccia la realtà. Calimero, però, può far tenerezza i primi tempi, definendo “un’ingiustizia” qualsiasi ostacolo lungo il proprio cammino, ma a lungo termine ci sarà inevitabilmente lo svelamento della vittima immaginaria. Quando la luna di miele con gli italiani finirà, Meloni dovrà dar conto delle promesse non mantenute, dei tentativi di cancellare del tutto i già fragili diritti delle minoranze e di un Paese che sembra viaggiare con la retromarcia, senza mai andare avanti. A quel punto il vittimismo non basterà più, i nemici immaginari evaporeranno e resterà solo l’incapacità di gestire una nazione, e la responsabilità non sarà di nessun altro.

Nell’immagine: “È un’ingiustizia però!“






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