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Il cinema coreano in tutta la sua complessa maestosità nella serie cult Squid Game
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Il cinema coreano in tutta la sua complessa maestosità nella serie cult Squid Game
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Il cinema coreano in tutta la sua complessa maestosità nella serie cult Squid Game
Squid Game è la serie Netflix interamente scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk (che ha trascorso cinque anni nello sforzo di trovare qualcuno disposto a realizzarla) di cui si parla un po’ ovunque e che, oltre che per l’idea pseudo-ludica su cui si fonda e i 110 milioni di spettatori globali in meno di un mese dall’uscita, è per il pulp di certe scene che non ha mancato di scomodare un po’ ovunque chi crede di riconoscervi un serio rischio di devianza morale. Si è tirato in ballo un classico del videogame come Fortnite, che somiglia a Squid Game proprio per quella modalità del “tutti contro tutti” che rende lecito qualsiasi mezzo di eliminazione degli avversari.
In realtà Squid Game è qualcosa di diverso. È il cinema coreano che si trasforma in serie, dilatando per gli appassionati del genere la storia fino a spalmarla su quasi nove ore. Sotto il sole però, niente di nuovo, per quanto duro e affascinante. Maestri del cinema del Paese del Sudest asiatico come Park Chan-wok (Trilogia della vendetta), Kim Ki-duk (Moebius) o Bong Joon-ho (Parasite) erano già riusciti a dimostrare come fosse possibile coniugare la poesia alla violenza, trasformando quest’ultima in un vettore narrativo senza dubbio influenzato da una radicata tradizione fumettistica, con il risultato di sdrammatizzare un po’, e nella peggiore delle ipotesi strappare una risata (come d’altronde fa Tarantino, che peraltro non mancò di esprimere tutta la sua ammirazione per Old Boy di Park Chan-wok, quando in veste di preside della giuria, nel 2004 gli assegnò il Grand Prix al Festival di Cannes).
Ma Squid Game ci mostra con brutale prepotenza anche qualcos’altro, inserendosi in un solco già magistralmente sondato da Saramago o Coetzee: all’essere umano, anche a quello tecnologizzato e digitalizzato, basta poco, un nonnulla oseremmo dire, per fare un passo indietro nella propria concezione del vivere civile. È sufficiente che una delle certezze delle nostre vite venga meno, e in men che non si dica ci ritroviamo in una dimensione tribale, in una cellula sociale sempre più ristretta, fino a diventare individuale. Accade anche ai giocatori di Squid Game, che a un certo punto capiscono come convenga che i “buoni” si alleino con i “buoni” e i cattivi tra di loro, allo stesso modo in cui lo fanno i protagonisti di Cecità o quelli di Aspettando i barbari. Uno studio antropologico sui generis, insomma, intenso e permeato di lirismo.
Tutto il resto è sangue e morte, e cinema coreano al suo meglio.
Per capire, e allarmarci, torniamo a leggere l’intramontabile saggio di Umberto Eco
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