Di Chiara Cruciati, il manifesto
Raccoglievano erbe selvatiche in un campo a Beit Hanoun, nel nord-ovest di Gaza. La linea di demarcazione con Israele non è così distante. Ne sono stati uccisi tre, sette feriti, dal fuoco aperto dall’esercito israeliano.
Nelle stesse ore, dalla parte opposta della Striscia, un bombardamento aereo ha centrato delle tende, erette vicino all’Emirati Maternity Hospital di Rafah. Secondo il ministero della salute della Striscia, gli uccisi sono almeno undici, i feriti oltre 50.
TRA LE VITTIME un’intera famiglia e il capo dell’unità dei paramedici dell’ospedale, Abdel Fattah Abu Marhi. Per gli sfollati è l’ennesimo avvertimento: Rafah non è luogo sicuro.
Eppure laggiù, nell’ultimo pezzo di Gaza disponibile, si sono ammassati 1,5 milioni di palestinesi, su «invito» delle autorità israeliane. «Il senso di sicurezza delle persone a Rafah è andato completamente in pezzi», commenta il corrispondente di al-JazeeraHani Mahmoud.
La notte precedente era toccato di nuovo a Deir al-Balah e al campo profughi di Jabaliya, nel centro dell’enclave palestinese. Qui i colpi sono arrivati dall’artiglieria pesante, da terra, e dai caccia, dal cielo. Una decina le esplosioni per un totale di 17 corpi recuperati, due case rase al suolo e altre otto danneggiate.
Gli ultimi massacri giungono mentre il mondo discute ancora dei fatti di giovedì, la strage degli affamati su al-Rashid Street a Gaza City. Ieri il numero degli uccisi è salito a 118, alcuni feriti non ce l’hanno fatta: quasi impossibile ricevere cure adeguate in un sistema sanitario collassato.
SU ISRAELE cresce la pressione affinché avvii (o permetta) un’indagine indipendente. A chiederla sono anche i più stretti alleati israeliani, dalla Gran Bretagna che con il segretario agli esteri Cameron parla di «orrore», alla Francia con l’omologo Sejourne che accusa Tel Aviv di «situazione ingiustificabile», fino alla Ue con il rappresentante agli esteri Borrell: «La responsabilità ricade sulle restrizioni imposte da Israele…all’ingresso di aiuti umanitari».
Per le Nazioni unite – che ieri hanno ricordato che stanno ancora aspettando da Tel Aviv le presunte prove del coinvolgimento di 13 dipendenti dell’Unrwa nell’attacco del 7 ottobre – i dubbi iniziano a schiarirsi: una delegazione dell’Onu ha fatto visita all’ospedale Shifa e ha documentato che l’80% dei feriti porta addosso colpi da arma da fuoco, come ha poi riportato Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale Guterres.
Dichiarazioni simili dall’ospedale Kamal Adwan, dove sono state condotte altre vittime (ferite da «pallottole e schegge» sulle parti inferiori del corpo per molti feriti, su testa e petto per i morti, ha detto il direttore Hossam Abu Safiya) e, dall’ospedale Al-Awda (dei 176 ricoverati, 142 avevano ferite da arma da fuoco e 34 ferite dovute alla calca, ha spiegato il direttore Mohammed Salha). I sopravvissuti, intervistati da testate sul campo, dall’Ap ad Al Jazeera, raccontano di spari ripetuti contro la folla.
C’È CHI DICE che tornerà comunque a cercare cibo se i camion si paleseranno a nord, c’è chi dice che no, non vale la pena. Come Hassan: «Arrivato a casa, ho dato il pacco di farina a mia madre. Ho iniziato a piangere quando ho visto che il sacco era sporco di sangue».
È una battaglia quotidiana, non la vincono tutti: ieri è salito a 13 il numero di bambini morti per fame nell’ospedale Kamal Adwan. Ora si combatte anche per accaparrarsi quello che piove dal cielo. Ai pacchi lanciati da Giordania, Francia, Qatar, ieri si sono aggiunti quelli statunitensi: 38mila pasti, ha fatto sapere Washington, sono volati su Gaza.
Con loro sono piovute le critiche: dall’Unrwa («non sono la risposta, aprite i valichi e portate i convogli e una vera assistenza») all’ex capo di UsAid, Dave Harden («un atto simbolico per acquietare l’opinione pubblica interna: quello che davvero serve sono più camion in ingresso ogni giorno») fino a Oxfam («serve solo a pulire la coscienza colpevole dei funzionari Usa le cui politiche contribuiscono alle atrocità e alla carestia…aiuti simbolici che sono profondamente umilianti per i palestinesi»).
PERCHÉ, come sottolinea il Doha Institute for Graduate studies, dal cielo piove l’equivalente di due camion. Si vede dalle immagini: persone, chi a piedi, pochi fortunati in bici, inseguono i pacchi con gli occhi sperando gliene capiti uno.
Per molti analisti e organizzazioni umanitarie, quei piccoli paracaduti sono il simbolo del fallimento della diplomazia occidentale, incapace (o, secondo Dave Harden, non intenzionata) a costringere Israele ad aprire i valichi agli aiuti, figurarsi a cessare il fuoco.
Ieri sembrava che qualcosa si potesse muovere, con delegazioni di Israele e Hamas date in partenza per il Cairo per negoziati indiretti, oggi. Poi nel pomeriggio Tel Aviv ha detto che non sarebbe partita: attende la risposta del movimento palestinese su una proposta in merito a una pausa temporanea di sei settimane e al rilascio degli ostaggi.
Fonti egiziane alla Reuters parlano di disaccordo sul ritiro delle forze israeliane dal nord di Gaza e sui prigionieri palestinesi da liberare.
Nell’immagine: Rafah, sfollati palestinesi in una tendopoli nel sud di Gaza