Vite sospese
Sulle alpi italiane un pittore russo accoglie chi scappa dalla guerra – Il racconto di un’esperienza molto speciale
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Sulle alpi italiane un pittore russo accoglie chi scappa dalla guerra – Il racconto di un’esperienza molto speciale
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Sulle alpi italiane un pittore russo accoglie chi scappa dalla guerra – Il racconto di un’esperienza molto speciale
Con l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina entrata nel suo secondo anno, oltre otto milioni di ucraini e quasi un milione di russi hanno dovuto abbandonare il loro paese. Questo ha portato persone di età diverse e diversa provenienza a condividere una necessità comune: fuggire. Quando chiediamo a Zoya della guerra, ci mostra le foto del bunker in cui ha vissuto con Moskva, la sua cagnolina. Oggi, a distanza di mesi, Zoya non sa cosa sia rimasto della sua casa. Lev, invece, scappa dalla Russia e non vorrebbe tornarci. Spera di costruire la sua vita in Italia. Entrambi vivono la loro attesa a Stove Oven House dove rifugiati e dissidenti trovano riparo dalla guerra e dalle persecuzioni politiche.
Stove Oven House aderisce ad Artist at Risks, una NGO pensata per offrire rifugio ad artisti dissidenti o in fuga da zone di guerra. Il network, che oggi conta 26 partner in 19 nazioni, ha vinto nel 2016 il Premio del Cittadino Europeo, riconoscimento dato dal Parlamento Europeo a quelle organizzazioni che nella loro quotidianità mettono in pratica valori di ospitalità e integrazione tra i paesi membri.
Lev e Zoya oggi vivono nel rifugio con Sergey e Claudia. Sono loro i proprietari di Stone Oven House. Sergey è un artista e dissidente russo, ha 38 anni, è sorridente, esploratore, attivista e continuamente indaffarato. Claudia è un’artista italiana, giovane curiosa ed energica, ha passato diversi anni tra Italia e Cina. Insieme, come risposta alla violenza hanno aperto le porte della loro grande casa a chiunque scappi dalla guerra.
“Sergey rendi questo mondo un posto migliore riunendo le persone indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione, dall’orientamento sessuale”, è uno dei tanti commenti che si possono leggere sul profilo Facebook di Sergey.
All’origine: la Russia di Sergey prima del conflitto
La decisione di ospitare russi e ucraini che lasciano il proprio paese ha radici lontane, è da ricercare nella storia personale di Sergey: “Sono scappato dalla Russia perché di lì a poco sarei stato costretto a prestare servizio militare. Non riuscivo a immaginare il mio futuro lì”, Sergey racconta che non sono solo le politiche del governo ad averlo spinto a lasciare il Paese, quanto più gli effetti sulle persone vicine a lui: “Molti miei amici e persone con cui lavoravo non non si interessano alla politica, troppi non hanno una visione chiara e nemmeno interesse. Tutti loro contribuiscono ad alimentare un sonno politico in cui tutti accettano tutto”.
Così, nel 2009, Sergey lascia Voronezh per Shanghai, dove lavora come artista a tempo pieno. Volendo esplorare i limiti del denaro negli scambi comunitari, Sergey lancia il progetto In Kind Exchange, un viaggio che attraversa i cinque continenti per ritrarre chiunque lo desideri in cambio di un pasto caldo, un passaggio in auto o un oggetto utile. Paese dopo Paese Sergey doppia un intero parallelo visitando oltre trentacinque nazioni La sua storia diventa presto virale tanto che Forbes Russia nel 2013 lo inserisce tra le 5 persone al mondo ad aver “rifiutato il denaro ed essere sopravvissute”. Quando pensa alla Russia Sergey racconta di un luogo molto diverso da quello che ha lasciato: “Non è stata sempre così, ma oggi è difficilissimo portare avanti un progetto di vita e costruire lì il proprio futuro”.
“Ho imparato a conoscere la politica quando sono andato via dalla Russia” riflette Sergey. “Oggi – racconta a Valigia Blu – puoi venire arrestato semplicemente se chiami ‘guerra’”’ la loro ‘operazione speciale’”. “Quando apri un resoconto pubblico, vedi il costo di una strada e ti rendi conto che è dieci volte superiore a qualsiasi città europea, comprendi che qualcosa non funziona”. racconta ancora Sergey.
I giorni di Zoya in attesa di tornare a Kharkiv
A Stone Oven House la vita segue il ritmo di un normale paesino d’alta montagna. Si spacca la legna, si fa il fuoco, si cucina e si passa tanto tempo insieme. Per chi ha trovato rifugio in questa casa la vita è come sospesa. Alcuni aspettano la fine della guerra per tornare in Ucraina, altri aspettano un cambio di direzione nelle politiche di Mosca. Le temperature sono mediamente rigide come nel resto dei paesaggi di montagna ma nettamente superiori alle medie stagionali. La casa è grande e la legna si consuma in fretta. A turno si cucina la cena ma il più delle volte è Zoya a cucinare. Le differenze spesso sono labili, tantissime pietanze appartengono a entrambe le culture. Nella casa sulle Alpi non c’è una televisione. Un proiettore trasmette durante la cena una ricca collezione di cartoni ucraini che risalgono agli anni ’80.
“In molti criticano la mia decisione di vivere con persone di nazionalità russa, però a me questo non interessa. Le nostre culture sono così simili, i nostri popoli sono così vicini, mi manca molto l’Ucraina e qui ho trovato un clima di ospitalità e vicinanza”, esclama Zoya, mentre Sergey ci aiuta con le traduzioni. Quando le chiediamo se ha informazioni sullo stato della sua abitazione, Zoya ci mostra centinaia di foto scattate durante i mesi passati nel bunker a Kharkiv. Nonostante parli quotidianamente con i suoi amici in Ucraina, oggi non sa esattamente lo stato in cui si trova la sua casa.
Prima della guerra Zoya insegnava arte in un istituto nella sua città. Oggi insegna ancora ma a distanza. Si collega quotidianamente su Zoom con i suoi giovani studenti sparsi in Europa. “La guerra ha cambiato anche loro”, commenta mentre ci mostra alcuni dei lavori della classe. Ha una figlia in Belgio e passa molto tempo al telefono con lei. Le sue giornate trascorrono tra passeggiate in solitaria, la preparazione del pranzo, la cura della casa ed i suoi dipinti. Per Zoya il telefono è molto importante: le permette di vivere in Ucraina con gli occhi, di tenere un contatto quotidiano. Ascolta video e programmi nella sua lingua. Zoya ha molti amici in Ucraina che la aggiornano con frequenza quotidiana sulla situazione.
Il 24 febbraio, a un anno dall’inizio del conflitto, siamo con lei. Per tutto il giorno resta sintonizzata su una radio ucraina mentre dipinge una madonna col bambino. I due si stagliano dorati su un fondale nero. “La mia arte è molto cambiata dall’inizio della guerra” ci spiega. Pochi giorni prima dell’invasione Zoya era stata a Venezia. I suoi acquerelli pieni di vita celebravano una città simbolo di bellezza e ispirazione. Oggi solo la tecnica è rimasta la stessa. Grandi pennellate hanno preso il posto di dettagli sottili, Marie che soffrono hanno preso il posto delle calli baciate dal sole.
Nel pomeriggio, invece, Lev e Zoya chiedono di andare a una manifestazione per la pace a Pinerolo, un vicino comune ai piedi della valle. Quando Lev e Zoya arrivano, incontrano il corteo a metà strada, Lev e Zoya si fermano al centro della folla e a turno tengono in alto un cartello in cui è stato scritto con un pennarello nero: “War 1467 Km”. Mette in risalto la distanza da Pinerolo al confine Ucraino.
Zoya ci tiene a parlare del suo passato, racconta molto e i suoi dettagli sono precisi. Il bunker, il letto, l’armadio, le pentole, tutto segue un racconto chiaro delle giornate in Ucraina dopo l’invasione. A Kharkiv per alcuni mesi Zoya ha continuato a vivere in un bunker di fortuna ricavato nelle cantine dell’edificio, poi ha deciso di lasciare il suo Paese perché era diventato troppo rischioso restare. Un’indagine dell’International Organization for Migration registra, durante quei giorni a Kharkiv il più alto numero di partenze di tutto il paese, calcolando che il 27% degli abitanti totali avevano lasciato la propria casa in poche settimane. Quando Zoya lascia Kharkiv, l’aggressione è in fase avanzata. Mentre si trova nel bunker, alla sua casa scoppiano tutti i vetri delle finestre a causa dei forti bombardamenti. Lei sente, resta chiusa per diverse ore nel sotterraneo, poi esce e fotografa grandi nuvole di fumo sparse su tutta la città. Oggi l’esercito ucraino ha riconquistato gran parte del territorio di Kharkiv spostando l’aggressione via terra sul confine est del paese. Tuttavia gli attacchi aerei rendono ancora rischioso ed incerto il ritorno.
Zoya racconta che i russi sono andati via alla fine dell’estate dello scorso anno, lasciando alle loro spalle terra bruciata. Seppur i militari oggi abbiano lasciato ufficialmente la regione, persistono costanti i problemi legati alla linea elettrica e di banda dovuti ai bombardamenti che la Russia concentra sulle infrastrutture strategiche. Kharkiv è una delle città più grandi per popolazione in Ucraina con il suo milione e mezzo di abitanti. Dal 1919 al 1934 è stata anche capitale dell’Ucraina e la sua piazza più grande si chiama piazza della libertà, nome assegnato nel 1966 in seguito all’indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica.
I giorni di Lev in fuga dalla Russia
Lev divide le sue giornate tra legna e rattoppi qua e là. Alla sera si chiude nel suo studio e dipinge le proteste LGBTQ che ha vissuto a Mosca. Di origini kazake, ha ottenuto la cittadinanza russa dopo essersi trasferito ancora giovane a Voronezh, assieme alla famiglia. “Il giorno dello scoppio della guerra ho scritto un post su Facebook”, ci dice, “e poche ore dopo la direttrice del teatro in cui lavoravo mi ha chiamato. Il giorno dopo sono stato ripreso da due agenti dell’FSB”. Lev viene segnalato dai servizi segreti russi. Da lì a pochi giorni è costretto a prendere un aereo per Istanbul e poi a volare in Italia dove arriva a Rorà. Conosce Sergey perché entrambi provengono da Voronezh. Sorride continuamente, “Ho sempre saputo di essere gay” dice, “ma non tutti sono così fortunati”.
Dieci anni dopo la legge russa sulla propaganda gay, che mirava a difendere i bambini dall’esposizione alla omonormatività e accostava pubblicamente il termine omosessualità alla pedofilia, nulla è cambiato. La legge da allora ha portato ad un incremento delle violenze nei confronti di persone non eterosessuali, come testimoniano decine di aggressioni avvenute negli ultimi anni. La stessa legge ha contribuito ad alimentare una percezione distorta nella popolazione, parlando spesso di omosessualità e pedofilia come termini di vicino singificato. “Quando vengono condotte interviste alla popolazione, spesso le domande stesse sono poste in maniera sbagliata”, racconta Lev. “In un noto centro oggi attivo in Russia, qualche anno fa intervistò anche me sul tema dell’omosessualità e alcune domande, però, accostavano omosessualità e pedofilia quasi a voler intendere una radice comune”.
In Russia, ancora oggi, l’omosessualità è vista e raccontata come una malattia. Gli psicologi – spiega aValigia Blu Lev – possono denunciare alle autorità il paziente che dichiara o confida di non essere eterosessuale. Sono poi la maggior parte delle autorità religiose stesse a perseguitare l’omosessualità, ed è un punto cruciale se si pensa che proprio la chiesa ortodossa ha un’influenza assai elevata. Durante la cena Lev ritorna con i pensieri al funerale di suo padre. La chiesa è gremita di parenti, amici familiari e conoscenti, il prete termina l’omelia, torna al microfono e cerca lo sguardo di Lev, lo indica e a gran voce scandisce: “È solo colpa tua se tuo padre oggi non è più tra noi”.
Lev ha avuto la fortuna di vivere a Mosca e Voronezh, città abbastanza grandi per dare nell’occhio ma non per tutti è così: “In Cecenia – ci racconta a cena – uccidono te e la tua famiglia se non sei eterosessuale”. Lev conosce un ragazzo ceceno che ha lasciato il suo paese e con lui tutta la sua famiglia. Oggi non ci sono più: sono stati seguiti, trovati ed uccisi. Nelle sue opere, spesso autofinanziate, Lev ha indagato il legame esistente tra politica e religione nella Russia di Putin. Attraverso una rete di contatti, è riuscito a ottenere le copie delle opere di Pavel Krisevich, uno dei tanti dissidenti finiti in carcere perché contrari al regime.
“Allo scoppio della guerra si è legato a una croce nella Piazza Rossa davanti all’edificio del FSB e come un Cristo ha finto di darsi fuoco”, ci spiega Lev. Oggi Pavel è nella prigione di Butyrka a nord di Mosca, una delle più temute. Pavel ha una condanna a 5 anni per simulazione di suicidio in pubblico. Le sue opere oggi si trovano in una stanza di Stone Oven House. In un testo che accompagna le sue cartoline di vita carceraria quotidiana scrive: “Un orizzonte di gelo ha avvolto non solo la Russia, ma il mondo intero. I miei lavori sono anche per loro, perché quando sentiamo il freddo cerchiamo di essere più vicini. La repressione e l’ingiustizia sono precursori del freddo, noi siamo per l’alba, per la primavera.”
Nell’immagine: il logo della NGO ARTISTS AT RISK
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