Nato nel 1938, l’autore ha dedicato i due terzi della sua vita – e tuttora continua – a studiare l’emigrazione ticinese oltre oceano, diventandone il massimo specialista. Sul fenomeno ha scritto libri, saggi e articoli. Le sue due pubblicazioni più note – pilastri ponderosi della storiografia svizzera del dopoguerra – ricostruiscono questa diaspora, sempre partendo dalle lettere che gli emigrati scrivevano alle loro famiglie rimaste in patria. La prima ripercorre il cammino dei nostri antenati in Australia (Dadò, 1976; nel 2001 venne anche tradotto in inglese e pubblicato in Australia con il titolo
We Won’t Stay Long in Australia); la seconda narra le vite di altri ticinesi partiti per la California (Dadò, 1981).
Il percorso storiografico di Cheda ebbe inizio – dopo la licenza in lettere e il dottorato all’Università di Friburgo – con Per una storia della popolazione valmaggese (1800-1960), uscito nel 1970. È anche stato ricercatore ospite all’Università di Berkeley (California, appunto), dove ha raccolto un’imponente messe documentaria su circa 27 mila ticinesi che si erano insediati sulle rive del Pacifico e nell’entroterra della West Coast.
Esodi, quelli d’oltremare, per molti definitivi; per tutti quanti certamente più radicali e difficili ancora rispetto alle partenze stagionali che pure caratterizzarono gran parte della Svizzera italiana in profonda crisi economica: migrazioni dirette in Italia, Francia e altri Paesi del Vecchio Continente, dove si andava per fare lo spazzacamino, il panettiere-pasticciere o si operava – a vario titolo e con vari ruoli – sui cantieri.
Le ragioni che hanno spinto Cheda a privilegiare questo filone di ricerca sono anche familiari: già suo padre era emigrato, a 19 anni, in California, dove ha vissuto per un decennio prima di rientrare in Ticino e formarsi una famiglia.
Il primo dei due tomi descrive inizialmente Il Cantone Ticino attorno alla metà dell’Ottocento e le cause che spinsero migliaia di (soprattutto) contadini a prendere il largo. Negli 8 distretti l’11% della popolazione censita nel 1850 risultava assente dalla Svizzera: Leventina (21.56%) e Blenio (15.94%) le valli più toccate dal fenomeno. Tra il 1843 e il 1873 furono complessivamente quasi 4’200 gli uomini e le donne emigrati oltremare nei soli distretti di Valle Maggia e di Locarno. Ne sarebbero rientrati 957, meno di un quarto. Nel secondo tomo vengono pubblicate (in ordine alfabetico per mittente) 326 lettere, spedite tra il 1853 e il 1919 ai familiari in patria. “Una tipologia di fonti che oltre a dar la parola alla gente dimenticata dalla cosiddetta grande storia, apriva nuove prospettive analitiche nell’ambito della storia della vita materiale, della storia delle mentalità e in quello della storia della lingua”.
La pubblicazione di epistolari di gente comune è proseguita anche dopo l’Australia e la California di Cheda (segnalo, tra gli altri, gli studi di Sonia Fiorini sui Bleniesi in Inghilterra e di Ivano Fosanelli sulla Comunità ticinese formatasi in Argentina: entrambi pubblicati dalle Edizioni Armando Dadò). Negli anni, agli epistolari si sono affiancati i diarî, le memorie e altre forme, genericamente definite dagli storici come scritture private.
“Le corrispondenze permettono di rivestire il passato di carne viva riservando un congruo spazio al modo di vivere, pensare e lavorare di gente comune. (…). Puntano ad approfondire le relazioni fra le costrizioni biologiche, le tradizioni religiose e le scelte politiche, associando il destino individuale a quello collettivo” (p. XXXIX).
Quella di Cheda non è una storiografia giudicante, anche se non rinuncia a esprimere pareri e convinzioni. “Oggettività non significa né neutralità né indifferenza perché, senza una personale partecipazione alle gioie e tribolazioni del presente, quelle del passato rimangono un’accozzaglia di fatti privi di senso, buone tutt’al più per legittimare (peggio strumentalizzare) le celebrazioni commemorative” (p. XLIII).
Delle pubblicazioni più recenti dello storico valmaggese abbiamo parlato pochi mesi or sono.
La recente riedizione di L’emigrazione ticinese in Australia ad opera di Armando Dadò Editore è arricchita da una presentazione di Luigi Lorenzetti e da una nuova introduzione dello stesso Cheda. Anche il testo di questa introduzione era peraltro già stato anticipato lo scorso anno (e commentato in questa sede) in Dal Ticino verso la libertà, auto-pubblicato nelle Edizioni Oltremare dirette dall’autore.
Per chi avesse già letto l’Australia di Cheda nelle precedenti edizioni, sono proprio il contributo di Lorenzetti (1964) – professore titolare all’Accademia di architettura di Mendrisio, dove coordina il Laboratorio di Storia delle Alpi – e la nuova introduzione dell’autore i rinnovati motivi d’interesse. Del tema emigrazione, intanto, la storiografia della Svizzera italiana continua ad occuparsi come di pochi altri. Non senza ottime ragioni, secondo Cheda:
“(…) l’emigrazione ha contribuito a forgiare il senso identitario di un territorio sempre in bilico tra chiusura e apertura, tra la difesa di una stretta endogamia sociale e comunitaria e lo slancio a volte chimerico verso il mondo e le sue mille promesse e opportunità. In tal senso, l’emigrazione ha anche contribuito a modellare la vita economica, sociale, culturale e politica del nostro territorio, lasciando su di esso tracce (e talvolta cicatrici) sia materiali che immateriali che la società odierna è vieppiù incapace di leggere per dare un senso al suo passato” (p. XIII).
Lorenzetti ricostruisce, dal canto suo, il clima, fortemente influenzato dal pensiero marxista (École des Annales), che caratterizzava la storiografia negli anni precedenti la pubblicazione dei due volumi di Cheda. Il quale, introducendo L’emigrazione ticinese in Australia nel 1976, scriveva testualmente: “Nella nostra storiografia rare sono le opere tendenti a superare il tono compassato di chi non vuole contrastare lo status quo, e questo non solo perché prendere una posizione significa, per certuni, purtroppo ancora mancare di oggettività storica, ma anche perché nella nostra piccola provincia culturale ci si è spesso illusi di fare storia presentando in bella forma letteraria le gesta di alcuni notabili o dei gruppi che li sostenevano. I vari corifei di regime si sono così indaffarati a levigare i busti marmorei dei rispettivi notabili, ignorando che la storia non è solo il risultato del pensiero e dell’azione dei potenti, bensì anche della partecipazione di tutto il popolo con il lavoro, con l’aspirazione alla libertà, alla giustizia, con le sofferenze e le gioie quotidiane alla realizzazione del destino comune” (p. 8). Cheda stesso parla di memoria degli esclusi definendo la crescente attenzione degli storici verso ogni forma di testimonianza documentaria popolare.
Sorprende un po’ – e Lorenzetti non manca di notarlo – che negli apparati bibliografici della prima edizione non compaiano riferimenti espliciti alla Nouvelle Histoire, capace di integrare, nell’analisi dei fenomeni, le scienze sociali, ma anche la demografia e la statistica “indispensabili” secondo Cheda “per porre un sigillo (sempre provvisorio!) su ogni fenomeno trascorso” (p. XXXIX).
Sempre in quella prima prefazione di quasi mezzo secolo fa, Cheda precisava ulteriormente le proprie intenzioni: “Si è cercato di dare al libro un carattere popolare, rifuggendo però il più possibile dai paradigmi usati dalla pubblicistica consolatoria a sfondo storico. E questo proprio perché il secondo scopo qui perseguito è quello di offrire un mezzo di controinformazione storica in alternativa alle fonti di informazione gestite dalla borghesia, attraverso le quali la storia viene – magari inconsciamente – filtrata e depurata dei suoi elementi popolari più emblematici” (p. 9).
47 anni dopo, introducendo la nuova edizione, l’autore non ha rinunciato a nemmeno un grammo della sua verve militante e riconferma in toto i propri intenti: “contribuire all’autonomia del cittadino, spesso al servizio di interessi partigiani anche a causa di una scarsa conoscenza critica del passato” (p. XXXIV).
Allargando il discorso dallo specifico iniziale al contesto geo-politico contemporaneo, Cheda constata come anche oggi “parecchi capitoli dell’eterno incontro-scontro fra gruppi, etnie, religioni e culture, con il relativo seguito di conflitti, collaborazioni e interessi di ogni genere, risultano spesso sfocati, intorpiditi, persino manipolati; comunque quasi sempre semplificati”. Poi sposta progressivamente la propria attenzione su un piano più generale, agganciato all’attualità, richiamando il lettore a un’evidenza che talvolta si sottace: ognuno di noi, pur nato in un luogo particolare, è anche – consapevolmente o meno – un potenziale migrante poiché tutti indistintamente abitiamo un’unica Terra-Casa-Patria, oggi malata, se non agonizzante.
Pur nei suoi risvolti drammatici, legati alla povertà, alla mancanza di lavoro e di prospettive, la fuga dalle terre ticinesi avvenuta nel XIX° secolo ha avuto (come ogni migrazione in ogni direzione continua ad avere) anche aspetti positivi: “Le relazioni con i diversi” scrive Cheda “permettono di uscire da un troppo angusto fuso orario per correggere i pregiudizi nei loro confronti. (…) Ci fanno conoscere l’importanza della diversità geografica, culturale e umana; in particolare di quella delle donne, degli emarginati, aborigeni e schiavi lasciati fuori dalla storia. Stimolano a trovare le più appropriate forme di integrazione in una società sempre più consapevole dei diritti di tutti, animali e piante comprese. Ci responsabilizzano nei confronti delle conseguenze ecologiche collegate alla transizione dalla civiltà tradizionale a quella tecnologica e dei consumi perché la protezione contro i suoi effetti negativi è un dovere di tutti” (p. XL).
E allora, conclude questa introduzione, che risuona come un lascito del ricercatore ai lettori di oggi e di domani, “spetta al sapiens decidere se conformarsi alle follie dei tiranni e alle speculazioni dei miliardari, oppure riflettere sul passato per agire nel presente. Seguire cioè il consiglio di quel migliaio di scienziati che ci richiamano agli imprescrittibili doveri di cittadini responsabili: face à la crise écologique, la rébellion est nécessaire. Una ribellione (senza usare violenza!) che potrà consentire anche ai nostri discendenti di ammirare, strabiliati, il solstizio invernale tra i megaliti di Stonehenge” (p. LVIII).
Nell’immagine: i megaliti di Stonehenge