Ignazio Cassis, prova d’appello
Il neo-presidente della Confederazione e l’occasione politica e personale per risalire nel paese la china dell’impopolarità
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Il neo-presidente della Confederazione e l’occasione politica e personale per risalire nel paese la china dell’impopolarità
Fra i consiglieri federali, il meno popolare fra gli svizzeri diventa il presidente degli svizzeri. “Primus inter pares”, Ignazio Cassis. E al di là delle Alpi – mentre la maggioranza del Ticino, comprensibilmente, si compiace per un ruolo istituzionale ritrovato dopo quasi un quarto di secolo – parlano di ‘ultima occasione’ per l’ex medico cantonale. La carta finale per recuperare il terreno perduto, e forse salvare la sua poltrona ministeriale nelle elezioni nazionali del 2023, sempre che anche il suo partito, il liberale, riesca a reggere l’urto. Non è tanto questione di un sostegno fiacco da parte dei parlamentari, che pure ha il suo peso e suona come un monito: c’è comunque chi nell’ultimo decennio ha fatto peggio, e del resto nemmeno l’elezione del socialista Alain Berset a suo ‘vice’ non si può certo definire brillante. C’è, soprattutto, l’immagine politicamente sfibrata di un ministro degli esteri che – sia per temperamento, sia per le circostanze in cui si è dovuto muovere, sia per scelte diplomatiche rivelatesi controverse o decisamente sbagliate – non ha saputo convincere. I sondaggi parlano chiaro, e non hanno nulla a che fare con l’essere esponente di una comunità minoritaria.
È noto il suo relativo isolamento all’interno del Consiglio federale, concretizzatosi nella secca e irrituale sfiducia manifestatagli dai colleghi nel decisivo dossier della trattativa sull’accordo quadro con Bruxelles, stracciato da Berna dopo sette anni di trattativa, e la relativa, imposta rimozione del negoziatore ticinese Balzaretti, che non poteva non aver operato se non in pieno accordo con il suo superiore. Si parlò di schiaffo al capo della diplomazia elvetica, e di ‘scippo’ del dossier, finito nel trita-carte di un clima politico condizionato dalla netta avversità dell’UDC ma anche dalla remissiva passività di partiti poco inclini a contrastare, anche per opportunismo elettoralistico, l’offensiva anti-europea del partito di maggioranza relativa. Cassis cercò di reagire parlando di un ‘suo’ piano B, in realtà mai visto e decollato. “Vada meno in Cina e di più a Bruxelles”, ha tuonato un deputato centrista. Non facile riprendersi dopo una simile débâcle.
Ma c’è altro di discutibile nel suo bilancio politico. Limitiamoci ad alcuni passaggi. L’appiattimento sulla politica estera trumpiana, con la ‘memorabile’ passeggiata tra i ‘merli’ dei castelli bellinzonesi a fianco di Mike Pompeo, il più fedele degli esecutori della disordinata e infelice politica estera dell’ex miliardario poi istigatore dell’assalto al Campidoglio. Oppure la più che inopportuna visita in Zambia di un ministro degli esteri alla miniera di rame della multinazionale svizzera Glencore, già contestata in diverse nazioni del Sud del mondo per pratiche anti-ambientali/anti-sindacali, e in seguito condannata in quel paese africano a sborsare una multa di 13 milioni di dollari per procedure fiscali irregolari. O, ancora, quando, in un campo di rifugiati palestinesi in Libano se ne uscì con l’affermazione che strutture come quelle (e non sono poche in Medio Oriente) dovessero chiudere per favorire la piena integrazione dei profughi nel paese di accoglienza: esattamente quanto chiedono da sempre i governi israeliani per negare il principio stesso del ‘ritorno’ dei rifugiati fuggiti o espulsi durante le varie guerre israelo-arabe. Uno strappo persino rispetto alla codificata politica del Consiglio federale su questo dossier; con relative dimissioni di Pierre Krähenbühl, allora presidente svizzero dell’UNWRA, Agenzia ONU per l’aiuto ai rifugiati palestinesi, sostanzialmente sfiduciato da Cassis, che colse quale pretesto un’inchiesta dell’Agenzia da cui lo stesso Krähenbühl uscì innocentato. E ancora bisognerebbe segnalare una generale, risaputa, scarsa considerazione nei confronti del consigliere federale all’interno dello stesso corpo diplomatico elvetico.
Se si dimentica tutto questo, si capisce poco del non brillante risultato di ieri alle Camere, rivolto a un politico da molti considerato troppo titubante, costantemente preoccupato di non esporsi eccessivamente, di rimanere ‘sottotraccia’, pure quando ci sarebbe stato bisogno di affermazioni più nette anche sulla questione (lui, medico) delle strategie anti Covid via via decise dal Consiglio federale e contestata anche con argomentazioni antiscientifiche e con atteggiamenti aggressivi da una chiara minoranza del paese.
Tattica o temperamento? Probabilmente una e l’altra. Ora Ignazio Cassis è chiamato alla prova decisiva, la prova d’appello. Rilanciare la propria immagine (un po’ come è riuscito a fare Parmelin), ma come? Nel suo discorso dopo la nomina lo ha fatto capire. “La pandemia – ha scandito – non ci dividerà”. Sono le parole chiave di una scelta, di un programma: quello di volersi proporre come mediatore, come ricucitore di una società mai così lacerata, e anche di un governo federale da svelenire al suo interno, e che negli ultimi due anni ha mostrato ed esportato (attraverso un utilizzo dei media senza precedenti) le diversità anche profonde fra i ‘sette saggi’. Opportunità non priva di rischi. E gli auguri non sono solo di rito.
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