Il lager degli armeni
Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, è allo stremo: «Siamo in 120 mila assediati da mesi, senza gas, luce, pane»
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Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, è allo stremo: «Siamo in 120 mila assediati da mesi, senza gas, luce, pane»
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Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, è allo stremo: «Siamo in 120 mila assediati da mesi, senza gas, luce, pane»
Di Roberto Travan, La Stampa
EREVAN. Il mio Paese è stato trasformato in un immenso campo di concentramento, il più sofisticato dai tempi della Seconda Guerra mondiale». Parole pesanti come macigni scagliate da Araik Arutyunyan, presidente del Nagorno Karabakh, all’Europa e al mondo. Dal 12 dicembre 2022 l’enclave armena è infatti completamente isolata: l’Azerbaijan, che continua a rivendicarne la sovranità, ha chiuso il Corridoio di Lachin, l’unica via di accesso, impedendo i rifornimenti di cibo e generi di prima necessità, 400 tonnellate di merci al giorno.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» ha scritto Marut Vanian sulla sua pagina Facebook in cui da otto mesi annota giorno dopo giorno la lenta agonia di Stepanakert, la capitale. La città è in ginocchio, le scorte di cibo ridotte al lumicino, i negozi letteralmente svuotati. Da tempo sono iniziati i razionamenti e il prossimo raccolto, a causa della penuria di carburante e fertilizzanti dovuta al blocco dell’Azerbaijan, crollerà del 70%: presto sarà impossibile sfamare tutta la popolazione. Gli azeri hanno anche tagliato le forniture di elettricità, gas e acqua potabile.
Sono le cifre a spiegare con eloquente chiarezza il dramma che sta sopportando questa piccola Repubblica de facto conficcata nel Caucaso meridionale: 240 giorni ininterrotti di isolamento, 120.000 persone tenute letteralmente in ostaggio di cui 8450 malati gravi privi di cure adeguate, 2000 donne in gravidanza senza assistenza, 30.000 bambini e 20.000 anziani a rischio malnutrizione, 9000 disabili abbandonati a sé stessi.
Europa e Stati Uniti hanno lanciato numerosi appelli per sciogliere l’assedio e scongiurare l’emergenza umanitaria, inviti inesorabilmente caduti nel vuoto. «Se l’Armenia accetta di astenersi da qualsiasi rivendicazione territoriale contro l’Azerbaijan, penso sarà davvero possibile firmare un trattato di pace entro la fine di quest’anno. In caso contrario non ci sarà pace» ha chiarito il presidente azero Ilham Aliyev lo scorso 21 luglio. Sarà nuovamente guerra, allora, perché Erevan difficilmente abbandonerà al suo destino il Nagorno Karabakh, terra in cui la difesa delle profondissime radici armene e cristiane è già costata in trentacinque anni di scontri oltre 30.000 morti e più di un milione di sfollati interni. Nel frattempo, l’offensiva azera prosegue: domenica 6 agosto un avamposto armeno è stato pesantemente bombardato.
Drammatica la situazione negli ospedali perché medicinali e ossigeno scarseggiano da settimane. L’Azerbaijan, inoltre, impedisce il trasferimento dei malati più gravi in Armenia, fatto che sta aumentando la mortalità fra le fasce più deboli della popolazione. «Solo pochi pazienti sono riusciti a raggiungere Erevan per proseguire le cure» spiega un funzionario governativo. Ma hanno pagato un prezzo altissimo perché «gli ammalati e i loro accompagnatori sono stati sottoposti a procedure di controllo umilianti e a trattamenti degradanti: li hanno filmati e successivamente le immagini sono state sfruttate dalla propaganda azera per dimostrare la normale apertura del Corridoio di Lachin. Ma era tutto falso». Il 29 luglio l’episodio più grave: «Vagif Khachatryan, 68 anni, a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa Internazionale autorizzata a trasportarlo in Armenia, è stato fermato e rapito dalla polizia di frontiera azera: da allora non si hanno più sue notizie» raccontano i testimoni.
La forza di interposizione russa, che in base agli accordi firmati nel 2020 dopo la Guerra dei 44 giorni avrebbe dovuto garantire l’accesso e la sicurezza del Karabakh, è accusata di tradimento. «Non ha fatto nulla per difenderci: sono complici dei gravi crimini commessi dall’Azerbaijan, devono andarsene» accusa Karen Ohanjanyan, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani “Helsinky-Iniziative 92”. Non basta la gigantografia dedicata a “Putin uomo dell’anno” piazzata all’ingresso di Stepanakert a rischiarare gli opachi rapporti tra lo “zar” e la famiglia Aliyev. Perché la Russia nonostante sia al fianco dell’Armenia nel Csto – l’alleanza militare formata da alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia – è allo stesso tempo il principale fornitore di armi dell’Azerbaijan, armamenti da oltre trent’anni usati proprio contro gli armeni. Ma verso Baku scorre anche il fiume di petrolio estratto in Russia e poi triangolato all’Europa aggirando le sanzioni per la guerra in Ucraina. Difficile pensare che Mosca possa rinunciare a un partner così prezioso con cui condivide pure l’amicizia con la Turchia, l’eterna nemica dell’Armenia.
«Tutte le azioni intraprese dall’Azerbaijan in questi mesi, dalle manifestazioni dei finti ecoattivisti (tra cui simpatizzanti della formazione terroristica turca dei Lupi Grigi, ndr) all’installazione del posto di blocco illegale a Lachin, sono state pianificate per rendere impossibile la vita alla nostra popolazione: in Nagorno Karabakh è in corso un’autentica operazione di pulizia etnica» denuncia il Ministero degli Esteri armeno. «Negare il diritto alla libera circolazione di persone, veicoli e merci costituisce plausibilmente una discriminazione razziale» ha invece sentenziato il Tribunale internazionale dell’Aja lo scorso 6 luglio, ordinando a Baku l’immediata riapertura della frontiera, intimazione rimasta inascoltata.
L’Armenia si è appellata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché «utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione per garantire l’attuazione degli ordini della Corte internazionale di giustizia, impedire la catastrofe umanitaria e fermare la pulizia etnica in Nagorno Karabakh». Nette anche le dichiarazioni dell’ambasciatrice della Repubblica d’Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan: «Non è più tollerabile che l’Azerbaijan continui ad ignorare sentenze, risoluzioni e dichiarazioni violando sistematicamente i suoi obblighi internazionali». Parole condivise dal presidente del Karabakh, Araik Arutyunyan, nella sua ultima lettera al Consiglio europeo: «Non abbiamo ancora perso la speranza della superiorità del diritto internazionale su quelle forze oscure che, in questi giorni bui per l’intera umanità, stanno cercando di commettere il genocidio di un popolo che ama semplicemente la sua libertà». La libertà di un Paese che dalla sua nascita non ha mai conosciuto un giorno di pace.
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