Il paradosso di mister Bibi
Elezioni in Israele. Per Netanyahu non è una partita scontata
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Elezioni in Israele. Per Netanyahu non è una partita scontata
Ma perché, forse che Benjamin Netanyahu potrebbe essere sconfitto nelle odierne elezioni politiche israeliane, le quarte in meno di due anni? Tutto, a prima vista, sembrerebbe giocargli a favore. Il successo della campagna vaccinale (oltre la metà dei 9,4 milioni di abitanti già immunizzati); la profonda crisi di quello che è stato il suo ultimo competitore, l’ex generale Benny Gantz leader del partito “Blu-bianco”; la scomparsa della sinistra laburista; gli “Accordi di Abramo”, cioè la pace ufficiale con Emirati arabi, Marocco e Sudan, a cui sommare la “pace sottotraccia” con l’Arabia Saudita; e infine la questione palestinese finita nel dimenticatoio sia del mondo arabo sia dell’Occidente.
Si direbbe un trionfo, il viatico per un tranquillo successo elettorale. Invece… invece no. Tutti i sondaggi della vigilia hanno segnalato che per il premier più longevo nella storia del paese, le cose non sono così semplici. Certo, il suo Likud rimarrà il partito più votato. Ma, ancora una volta, da solo non potrà governare. Addirittura, le previsioni indicano un piccolo ridimensionamento del suo gruppo parlamentare. L’incredibile frammentazione del quadro politico nazionale è la prima causa dell’incertezza. Una miriade di partitini sono oggi a caccia di quel 3,25% di suffragi che permette l’accesso alla Knesset, l’ Assemblea di Gerusalemme. Una galassia che si colloca soprattutto a destra. Non tutti disposti, tuttavia, ad allearsi nuovamente con “Bibi”, come viene chiamato Netanyahu in Israele, l’uomo che si avvia a un pesante processo per corruzione e abuso di potere. Molti di quegli schieramenti minori (numerosi quelli nazional-religiosi) sono guidati da uomini fuoriusciti dal Likud, per contrasti politici, o ancor più per ambizione personale. Non tutti predisposti – benché condividano la negazione dei diritti palestinesi e la colonizzazione forzata dei “territori occupati” – a riconciliarsi col premier in carica.
Alternative? Solo il pallido, seppur in crescita, schieramento centrista di Yair Lapid, ex giornalista da un decennio entrato in politica, che a sua volta dovrebbe convincere tutta una serie di alleati minori, decisamente rissosi, e in alcuni casi di orientamento opposto al suo. Né si può pensare che Lapid sia più aperto sul problema palestinese. Troppo timidamente si è detto favorevole alla “soluzione dei due Stati”; ma, giusto per fare due soli esempi, definì ‘sovversiva’ l’ONG ‘Breaking the silence’ per aver denunciato gli abusi dell’esercito nei territori palestinesi, e criticò la Corte suprema che – esempio rarissimo – impose lo smantellamento di una colonia ‘illegale’ (in realtà, lo sono tutte).
In queste condizioni, la prospettiva è di un paese che si è infilato nell’instabilità politica permanente. Soprattutto se “Bibi” dovesse ottenere la maggioranza parlamentare grazie al sostegno di una minuscola formazione araba (quasi il 19 per cento della popolazione con cittadinanza israeliana è araba, spesso definita di ‘serie B’); formazione a cui Netanyahu ha promesso mare e monti. E sarebbe la sintesi di tutti i paradossi. Non è forse lo stesso Netanyahu che definì gli arabi israeliani una minaccia per il paese? E non è lui cha ha voluto che Israele diventasse istituzionalmente l’esclusiva “patria degli ebrei”?
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E se proprio dovessimo comunque definirla dovremmo chiamarla ‘coercizione cosciente’ perché imposta da fattori e forze esterne