Tra i meriti o i demeriti (dipende dalle contrastanti premesse) della guerra di Putin all’Ucraina possiamo elencare: la rianimazione di una Nato che Emmanuel Macron aveva addirittura definito “moribonda”; il suo allargamento-consolidamento con l’adesione di due paesi storicamente neutrali, Svezia e Finlandia (per quest’ultima già avvenuta, per la prima ancora sottoposta al veto, ai calcoli, all’ambiguità della Turchia); l’accresciuta dipendenza della parte europea dal potere e dagli interessi statunitensi; lo spostamento ad Est dell’asse dell’’Alleanza, con la Polonia e le tre nazioni baltiche che meglio corrispondono alla strategia americana e indotte al contrasto netto nei confronti di Mosca, essendo i loro storici timori per le intenzioni russe ancor più rafforzate in seguito all’aggressività della “Novorossija”, la visione di “Nuova Russia” teorizzata dal putinismo.
Improbabile che il nuovo zar avesse messo in conto un tale rosario di conseguenze, inizialmente convinto com’era che della “piccola Russia” potesse far velocemente un sol boccone (un blitz di pochi giorni; la rapida conquista di Kiev; l’annunciata ‘denazificazione’; un’accoglienza trionfale quantomeno da parte della minoranza russofona, che non c’è stata; l’istituzione di un governo ucraino fantoccio con dei ‘galantuomini al potere’, come sintetizzò l’amico e sodale Berlusconi in uno degli sfoghi politici più sinceri di fine vita). Pensava, Putin, che un’invasione avrebbe avuto su Europa e Usa lo stesso effetto dell’occupazione della Crimea nel 2014: proteste, qualche sanzione, ma nulla di insormontabile per le ambizioni imperiali russe. Scosse invece anche dall’ammutinamento di Prigozhin e della Wagner, che hanno oltretutto messo in discussione la narrazione ufficiale su origini e cause del conflitto (“Non la Nato, ma le ambizioni di potere e d’arricchimento delle élite militari”).
Questa la cornice, dopo oltre quindici mesi di feroce conflitto – con i civili continuo, intenzionale bersaglio dei missili russi – in cui da oggi a Vilnius si avvia il vertice dei leader Nato (Biden in testa) che deve soprattutto decidere fino a che punto spingere il sostegno militare a Kiev, e fors’anche fino a quando. La domanda delle domande sarebbe: la Nato può accogliere l’Ucraina nell’organizzazione politico-militare? La risposta è già nota: no, comunque non mentre il Paese di Zelensky è in guerra per respingere gli invasori e riprendersi il massimo di quel 20% di Donbass (la parte più ricca di infrastrutture industriali e di materie prime) oggi sotto occupazione russa. Non lo consente la carta della NATO, per cui nessun paese in guerra può essere ammesso. Ma soprattutto non lo suggerisce un minimo di saggezza politica. L’alleanza atlantica supererebbe infatti irrimediabilmente il limite, la ‘linea rossa’ che si è imposta: soccorrere Kiev fornendogli le armi necessarie, ma operativamente rimanendo al di fuori della contesta militare: in sostanza, nessun coinvolgimento diretto, Kiev non deve esportare la guerra in territorio russo, e continuerà dunque a battersi con “un braccio legato dietro la schiena” ma avvantaggiata dalla tecnologia militare statunitense.
“Linea rossa” che sarebbe superata in caso di adesione ucraina, poiché in base all’articolo 5 dell’Alleanza qualunque paese membro subisca un’aggressione ha la garanzia dell’automatica entrata in combattimento al suo fianco delle altre nazioni alleate. La questione è dunque rinviata al dopo-guerra, sempre che nella soluzione negoziata non si preveda una futura formale neutralità dell’Ucraina: contro cui si è espresso anche Henry Kissinger – che definisce del tutto logica a questo punto la partecipazione di Kiev alla Nato – dopo la sua iniziale forte critica alla politica della Casa Bianca.
Quale garanzia ulteriore può allora fornire l’Occidente all’Ucraina a fronte di una Russia che visibilmente punta su una guerra lunga e di logoramento? Nelle ultime settimane si è fatta strada l’ipotesi della cosiddetta “formula Gerusalemme”. Una combinazione di accordi anche bilaterali e di consegna garantita di armi, non escluso un sistema antimissilistico simile all'”Iron Dome” che “copre” e protegge le città dello Stato di Israele. Sarebbe la polizza assicurativa che Zelensky otterrebbe per l’immediato. Una polizza che lenisce il ricordo della violazione di quel Memorandum di Budapest con cui la stessa Russia e gli Stati Uniti, più Francia e Gran Bretagna, assicuravano all’inizio degli Anni Novanta l’integrità dei confini e l’indipendenza dell’Ucraina: in cambio della rinuncia, anche su pressione di Bush padre, al mantenimento del terzo arsenale atomico del mondo, consegnando quindi tutte le sue testate nucleari alla Russia di Elstin. L’unico atto formale-interstatale e sottoscritto nel dopo-Urss (al contrario delle promesse solo verbali del non allargamento della Nato a Est): violato clamorosamente da Mosca. Un precedente pochissimo citato dai pacifisti anti-atlantisti.
C’è oggi sempre più la convinzione che anche gli Stati Uniti guardino a una sorta di confine temporale, oltre il quale sarebbe maggiormente problematico continuare il sostegno alla guerra d’Ucraina. È la scadenza del prossimo fine dicembre. Non soltanto per la cosiddetta “war fatigue” da parte delle opinioni pubbliche occidentali. Ma anche, forse soprattutto, perché sul piano politico un Joe Biden poco premiato dai sondaggi e decisamente poco in forma non solo fisicamente, deve affrontare nel 2024 una sfida problematica per la riconquista della Casa Bianca. Contro un rivale che a Mosca si spera sia nuovamente Donald Trump, che definì “geniale” la decisione di Putin di attaccare l’Ucraina, che ha un rapporto spesso polemico e prepotente con i più tradizionali alleati del vecchio continente, e che si considera “il solo in grado di porre fine al conflitto in pochi giorni”. A quale prezzo? Domanda e prospettive che non tranquillizzano affatto Kiev. Soprattutto se continuasse con eccessiva lentezza la sua attuale controffensiva, rispetto al calendario teoricamente già fissato ad Ovest.
Nell’immagine: un elemento del sistema di difesa israeliano “Iron dome”