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Di Ilaria De Pasca, Il Mulino

«La guerra smussa le differenze fino all’umiliazione totale del singolo: si chiami Achille o Ettore, il vincitore assomiglia a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti. Omero non ci risparmia lo spettacolo. […] Nell’ Iliade la forza appare dunque come la suprema realtà e insieme la suprema illusione dell’esistenza».

La filosofa Rachel Bespaloff – cui appartengono queste righe – riscoprì un interesse e una fascinazione nei confronti del primo poema omerico durante i pomeriggi trascorsi ad aiutare la figlia nello studio. Era la fine degli anni Trenta del Novecento. Si accorse così che le parole di Omero avevano un significato calzante per l’epoca e una capacità di rispecchiare e gettare luce sul presente cui occorreva prestare la giusta attenzione, specie in un momento storico in cui l’alba del nuovo conflitto mondiale richiedeva meditazione e lucidità di pensiero. Il saggio Sull’Iliade sarebbe apparso nel 1943, solo pochi anni dopo che un’altra filosofa, Simone Weil, pubblicò il suo intervento sul testo omerico, dal titolo L’Iliade o il poema della forza.

La complessità dei nostri tempi così come la volontà di indagare la presenza e la trasformazione del concetto di guerra nella cultura hanno portato anche Antonio Scurati a partire dalla guerra di Troia per confezionare un’indagine sulla fenomenologia bellica dai tempi antichi fino ad oggi. Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri è stato recentemente pubblicato da Bompiani, ampliando uno studio sul tema edito all’inizio degli anni Duemila ma tornato di grande attualità. Si tratta di un saggio notevole per le suggestioni e per la quantità smisurata di spunti di ricerca che dal testo prendono le mosse: una bibliografia che spazia dalle opere fondanti la storia della letteratura occidentale, che ci restituiscono il tentativo di raccontare i campi di battaglia secondo molteplici stili e punti di vista, agli studi critici che analizzano originali prospettive sul tema.

Lo scopo del testo è dichiarato già in partenza dallo stesso autore: «scandagliare le fasi di nascita, crescita e morte di una cultura guerriera che, lungo l’arco della sua storia, intrattiene un rapporto costitutivo con la sua rappresentazione letteraria». La guerra, nel suo legame con la visibilità e la narrazione, viene raccontata nel suo essere fenomeno etico, estetico ed insieme metafisico. Non si tratta di una semplice disamina su quale sia stata la concezione della guerra nel corso dei secoli: abbiamo piuttosto a che fare con uno studio sulla semantica del conflitto, attraverso le epoche e i generi letterari, tanto per colui che lo vive da protagonista tanto per colui che lo osserva da lontano, spettatore del naufragio da un porto sicuro, per utilizzare la celebre immagine lucreziana.

Il saggio si apre, come detto, con la guerra di Troia. Del resto l’ Iliade è la pietra miliare della letteratura occidentale e non c’è discorso intorno all’uso della forza che possa esimersi dal partire da lì. Emblema della figura del guerriero è Achille, la cui grandezza è tale in quanto risponde a una logica antitetica a quella che guida le azioni di chi abita la città e che fa del logos il valore supremo. L’eroe omerico è animato dalla ricerca del kleos, la gloria: è in funzione dell’eternità che l’individuo prova attrazione per la tragicità del polemos, impaziente com’è di entrare a far parte della schiera degli eroi. Achille accetta la morte perché vuole «brillare», e per farlo deve prima scomparire. Il gesto epico e la sete di eternità che caratterizzano l’eroe greco vengono descritti attraverso le interpretazioni di storici e filosofi (strano che a mancare sia proprio la Bespaloff, così vicina per sensibilità) che hanno cercato di cogliere in profondità i meccanismi della guerra e della sua narrazione. Tra le voci, c’è quella di Gregory Nagy, docente di Lettere classiche alla Harvard University, che contrappone le figure dei due personaggi omerici per eccellenza: Achille e Ulisse. Quest’ultimo assume in tale contesto il ruolo di anti-eroe, in quanto, a differenza del Pelide, preferisce al sacrificio il ritorno a casa dove trascorrerà una serena vecchiaia. Ulisse sceglie la vita; Achille «opta per la morte gloriosa piuttosto che per l’autoconservazione perché in un mondo siffatto l’eroismo è l’unica possibilità che l’uomo ha di affermarsi in quanto individuo». «Il guerriero – scrive Scurati – pecca veramente soltanto se cessa di essere un guerriero, se non percorre fino in fondo la via dell’eccesso violento che sola conduce alla sua virtù specifica, la virtù con cui l’uomo fa violenza alla spietatezza inumana dell’ordine cosmico».

Il racconto e la visibilità della guerra assumono altra forma con l’affacciarsi della modernità, in un crescendo continuo: non c’è più spazio per la gloria sul campo di battaglia, il combattente guarda in faccia l’insensatezza del momento. L’affermarsi del progresso scientifico e dell’utilizzo della polvere da sparo non solo permette di superare la forma del duello, tipica del mondo antico e cavalleresco, ma sancisce altresì una «crisi della rappresentazione» dell’evento bellico stesso, richiedendo una narrazione diversa (il romanzo è la risposta a questa nuova esigenza) e, non da ultimo, imponendo un’etica diversa. Le nuove armi non esigono più vicinanza tra i corpi: il combattente «colpisce di lontano i suoi nemici, senza che questi se ne avvedano, senza che abbiano nemmeno la possibilità di vedere giungere la propria morte. Una morte che non vedono e che, sebbene sia la loro morte, non essendo vista, non li ri-guarda». Un processo che porterà a forme sempre più estreme: la «guerra dominata dagli sguardi satellitari, dai sistemi di puntamento automatici dei missili strategici che colpiscono a distanze planetarie, da una potenza di fuoco incommensurabile alla misura umana proprio perché proporzionale alla capacità di “messa a fuoco” che è solo del calcolo informatico, in cui il reale è processato attraverso l’occhio digitale del computer».

Viene alla mente quanto Gunther Anders scriverà intorno alla metà del Novecento a proposito di Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, con il quale intrattenne un’intensa corrispondenza epistolare. «La guerra ha assunto un carattere fantomatico e indiretto, poiché i nemici non si vedono più, e poiché la grandezza degli effetti delle nostre azioni trascende definitivamente le nostre capacità psichiche, e cioè la nostra forza immaginativa». Il carnefice non guarda negli occhi la vittima, non ne scopre il volto e, pertanto, non ne riconosce l’umanità.

Un nuovo interrogativo prende forma dopo la Grande guerra, in merito alla possibilità di raccontarla: possiamo considerare attendibile la voce dei soldati sull’esperienza al fronte? In pagine di grande interesse, Scurati parte dal lavoro intellettuale di Jean Norton Cru, che nel primo dopoguerra pubblicò Témoins, una preziosissima raccolta di testimonianze di combattenti, e lo contrappone a coloro che negano il valore storico del racconto autobiografico, in quanto troppo coinvolto per poter vantare la giusta distanza rispetto all’oggetto da rappresentare e comprendere.

Giungendo alla contemporaneità, Scurati dedica diverse pagine alla televisione e al reportage di guerra, concentrandosi sul venir meno, almeno apparentemente, della distanza tra spettacolo e spettatore. La simultaneità della cronaca e la quantità di immagini prodotte ha modificato radicalmente la nostra percezione dei fatti. Di fronte a questo nuovo modo dell’informazione, lo spettatore si trova in uno stato di «alienazione della propria capacità critica e di giudizio». Paradossalmente, in una realtà sovraesposta, il visibile perde valore e significato. Se «fare esperienza significa trasformarsi, divenire altro da quel che si era», in questo nostro tempo fatichiamo a trovare lo spazio della riflessione rispetto alla miriade di spunti mediatici di cui siamo circondati costantemente.

Resta solo un “però”. Anche nell’edizione ampliata rimane inindagato il ruolo assunto dai social media nel raccontare i conflitti negli ultimi decenni, non ultima la guerra russo-ucraina. Se da un certo punto di vista, alcune riflessioni proposte risultano adattabili anche a questo nuovo contesto, dall’altro permangono degli aspetti specifici che varrebbe certamente la pena approfondire, domandandosi inoltre quale forma di narrazione della guerra sia la più rappresentativa dell’oggi.






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