Il ritorno del panda fra Cina e Stati Uniti
il vertice Xi Jinping-Joe Biden rilancia il dialogo fra Cina e Stati Uniti: è anche il frutto delle reciproche debolezze
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il vertice Xi Jinping-Joe Biden rilancia il dialogo fra Cina e Stati Uniti: è anche il frutto delle reciproche debolezze
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• – Fulvio Poletti
In ricordo della scrittrice luganese, Gran Premio Svizzero di Letteratura 2018, scomparsa ad Aarau
• – Enrico Lombardi
Un ricordo di Anna Felder
• – Fabio Pusterla
Ricordando Anna Felder
• – Matteo Pedroni
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• – Redazione
Fra le diverse “ricette” politiche per contrastare i costi della sanità non se ne intravvede alcuna che si preoccupi davvero dei lavoratori della sanità
• – Boas Erez
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• – Redazione
il vertice Xi Jinping-Joe Biden rilancia il dialogo fra Cina e Stati Uniti: è anche il frutto delle reciproche debolezze
Sembrava dunque che la “diplomazia del panda” fosse ormai da dimenticare. Non è così. Questo è il messaggio che ci arriva dal vertice (ben quattro ore di colloqui) fra Joe Biden e Xi Jinping in terra californiana. Non si tratta di un totale e impensabile “reset” dei rapporti fra le due maggiori potenze del pianeta, ma il dialogo è ripreso. Addirittura assai positivamente, stando alle dichiarazioni post-summit dei suoi protagonisti. Con progressi sulla tutela dell’ambiente, l’energia, l’intelligenza artificiale, la collaborazione di Pechino nella lotta alla diffusione dell’oppiaceo fentanyl (la droga zombie) entrato massicciamente e con notevoli danni negli Stati Uniti. Ma, più di ogni altro progresso, c’è la ripresa dei contatti fra i vertici dei rispettivi eserciti, che dovrebbe garantire contro colpi a sorpresa e fraintendimenti sul piano militare. Insomma, per dirla con Ian Bremer, autorevole analista e fondatore del Centro ricerche EuroAsia, “il summit più riuscito di questa Casa Bianca”, mentre a leggere la stampa ufficiale cinese sembra tutto, o quasi, rose e fiori “per l’amicizia fra i popoli americano e cinese”. Addirittura calmierata la crisi con Formosa: non che il gigante asiatico rinunci a reintegrare nella madre patria l’isola secessionista, e nemmeno che l’America abbandoni la sua pluridecennale “ambiguità strategica” (c’è una sola Cina, ma gli Usa aiuteranno militarmente la democratica Formosa anche in caso di aggressione): la novità sta nel quasi proclamato attendismo di XI Jinping ( forse memore di quanto disse Mao e Kissinger: “noi possiamo pazientare anche un secolo”): fase futura forse meno problematica visto che le imminenti elezioni a Taiwan potrebbero favorire la coalizione di due partiti (uno l’antico Kuomintang) oggi più aperti al dialogo e alla cooperazione economica con Pechino (che da Formosa già acquista parte consistente dei semi-conduttori indispensabili al suo sviluppo tecnologico”).
Certo, ci si muoverà ancora lungo un crinale pericolosamente stretto, per nulla sicuro, esposto a ripetute insidie. Ma quel che si concorda (in fatto di clima e di de-escalation della tensione bilaterale) non è poco. Ed è il risultato della costatazione e della somma di due debolezze.
Soprattutto economica, quella cinese: la Repubblica popolare attraversa probabilmente il suo periodo più problematico in fatto di crescita, il maggior interventismo del partito scoraggia gli investitori, non pochi imprenditori esteri si stanno ritirando, Pechino non vuole perdere i benefici dell’interscambio commerciale con gli Stati Uniti (700 miliardi di dollari, con surplus cinese di 380 miliardi), la mondializzazione è messa in discussione da europei e americani che vogliono ‘riportare a casa’ la fabbricazione di prodotti considerati sempre più strategici (per esempio nel campo sanitario). Dall’altra parte la debolezza americana, che è politica: la crisi interna americana è palese nel suo rincorrersi di continue fratture politico-identitarie-ideologiche; la Casa Bianca non può aggiungere e affrontare altri scontri internazionali mentre è già coinvolta in due conflitti (Ucraina e Medio Oriente); la corsa per la riconquista fra un anno della presidenza rischia di diventare un golgota per Joe Biden nel nuovo corpo a corpo con Trump , visto che finora “Sleepy Joe” (a causa dell’inflazione – in realtà non così drammatica, come certifica il Nobel Joseph Stiglitz – ma forse ancor più per la sua età e le sue fragilità) non riesce a migliorare il tasso di popolarità, uno dei più bassi della storia statunitense, nonostante il suo programma di rilancio produttivo attraverso dei colossali investimenti pubblici. E’ partendo da questo parallelismo di due giganti in affanno, che ormai da mesi l’attivismo delle rispettive diplomazie lasciava presagire l’organizzazione e il buon esito del vertice di san Francisco.
A denti stretti persino il Cremlino ha dovuto ammettere che si tratta di un “summit importante”. E Putin dovrà farsene una ragione. Non che Xi stia per abbandonare la Russia, visto che oltretutto ha in mano la ‘golden share’ dell’accoppiata. Carta che utilizza sia a beneficio della propria economia (prodotti energetici russi ottenuti a prezzi molto scontati), sia per giocare la sua partita nel quadro della guerra ucraina, sia per tentare l’alleanza operativa di quel Sud Globale critico della ‘supremazia’ occidentale che tuttavia per il momento sembra ancora troppo variegato per procedere compattamente. Ma siccome i cinesi sono maestri nell’arte delle battute con cui fotografare il presente ma anche indicare un destino, per ora accontentiamoci di quel “il mondo è abbastanza grande per tutti”. Dal regresso pre-adolescenziale a un atteggiamento più responsabile. Auspicio con cui la stampa di partito ha santificato a Pechino la trasferta americana del suo ‘imperatore’.
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