Il senso di Sanremo (se ce l’ha)
Un festival liquido, fra like e follower, in un mare di contraddizioni da cui pare uscire vincente la statista del futuro: Chiara Ferragni
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Un festival liquido, fra like e follower, in un mare di contraddizioni da cui pare uscire vincente la statista del futuro: Chiara Ferragni
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Un festival liquido, fra like e follower, in un mare di contraddizioni da cui pare uscire vincente la statista del futuro: Chiara Ferragni
Circa dieci anni fa, il Festival di Sanremo veniva considerato cerebralmente morto. Vi ricorderete nel 2010, il secondo posto raggiunto dal trio Pupo, Emanuele Filiberto e lo sconosciuto tenore Luca Canonici con il brano “Italia Amore Mio”, il quale regalò uno dei momenti d’intrattenimento più alti mai trasmessi dal servizio pubblico. Ma che allo stesso tempo ha fatto capire che la qualità della kermesse stava crollando verticalmente. Quelle edizioni insomma, a cavallo fra gli anni Duemila e gli anni Dieci, rappresentarono una commistione senza capo né coda di artisti al tramonto in cerca di un vano rilancio di carriera, fenomeni del momento premiati da un insensato televoto, morti di fama e di fame. E lungi dal voler lodare eccessivamente la contemporaneità, c’è da assodare un fatto: Sanremo è rinato, almeno in termini numerici. Se quindici anni fa si registravano gli ascolti più bassi dal 1951, quella odierna al contrario è stata la più seguita dell’ultimo quarto di secolo.
È cambiata l’alchimia artistica. I cantanti in gara hanno smesso di portare canzoni “da Sanremo” – dai temi aulici, ma dai testi prevedibili e stantii – preferendovi ballate moderne, motivetti orecchiabili, banalotti, ma sinceri. Il tema dell’amore, molto inflazionato, tutti lo portano ma pochi sanno davvero raccontarlo. Peccato. Ma la sensazione è che il Festival abbia smesso di mostrarsi forzatamente ingessato per puntare sulla spontaneità dei suoi partecipanti. Quest’anno sono in quattordici, la metà, gli esordienti assoluti, molti sconosciuti, Sanremo è tornato a essere rilevante, dovendo però, a tal fine, sacrificare la sua sacralità. Elettra Lamborghini e MYSS Keta, mezze ubriache, che duettano stonate nell’edizione 2020 sulle note del brano più celebre di Claudia Mori non sarebbero state concepibili in passato. Così come la scimmia nuda di Gabbani, i palloncini fallici dell’edizione Covid e gli abiti discutibili indossati sul palco. La classicità delle edizioni pettinate – ma piatte – non paga più.
Quindi ecco spuntare l’istrionico, l’eccesso a tutti i costi che riesce a rendere ordinario lo straordinario, in un conformismo dell’anticonformismo nauseante ma impossibile da ignorare nella sua capacità di iperstimolare gli spettatori, fornendo uno spettacolo che sembra sempre più lo scrolling infinito di Instagram formato 16:9. Un Sanremo liquido incapace di darsi delle regole, perché costretto a inseguire il fenomeno della sottocultura del momento. E se TikTok diventa improvvisamente rilevante, ecco apparire il cantante fenomeno di TikTok. E se c’è da spingere su qualsiasi tema sociale del momento, ecco il fenomeno che rappresenta il tema sociale del momento, con possibilità di elevarlo o elevarla a stella luminosa del firmamento musicale nazionale. Sanremo è una miscela perfetta, di retroguardia e avanguardia, che con il binomio Fiorello-Amadeus, macina telespettatori su telespettatori. Insieme alle curve calcistiche e i vari cenoni di natale e di capodanno, è diventato l’ultimo luogo sacro del Belpaese.
I grandi registi tutto questo lo sanno, e i grandi sceneggiatori, coloro che scrivono la storia, si infiltrano. Ogni parola pronunciata su quel palco viene ascoltata da quasi 15 milioni di telespettatori, in diretta, e da qualche altro milione il giorno dopo. L’edizione LXXIII passerà alla storia per l’Affaire Zelensky, chiamato dapprima a mandare un videomessaggio durante la serata finale, salvo poi ripiegare su una ben più asciutta – e meno impattante emotivamente – lettera scritta. Una patata bollente cotta e servita da Bruno Vespa, “l’eminenza grigia del governo Meloni”, fresco di viaggio a Kiev e, per sua stessa ammissione, intermediario fra il Presidente ucraino e la Rai. Per sanare la situazione è dovuto scendere nell’arena il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Durante la prima serata è così apparso come un’entità soprannaturale, immediatamente prima del monologo dell’incensatore par excellence, Roberto Benigni.
Il segnale lanciato da entrambi è chiaro. Unità nazionale (quindi basta tentennamenti pubblici sul sostegno all’Ucraina) e difesa della Costituzione (su questo punto Benigni ha fatto il resto). Una difesa percepita come necessaria, visto e considerato che in capo al governo si trova un Premier che ha in programma la riforma delle riforme: l’introduzione del Presidenzialismo, ovvero elezione diretta del Presidente, con conseguente sconquasso dell’ordine costituzionale ideato dai nostri padri costituenti (fra cui figura Bernardo Mattarella, come ricordato per l’appunto da Benigni). Il Quirinale è un Impero, e in quanto tale, non va messo in discussione. Né dal presidenzialismo, né dall’autonomismo “secessionista”. Guai a chi tocca l’establishment, l’unico establishment in un Paese anarchico per temperanza, e campanilista per tradizione.
Si tratta della prima volta nella storia di Sanremo che un Presidente della Repubblica siede al Teatro Ariston. Un colpo mica da poco per Amadeus, che può intitolarsi a tutti gli effetti i meriti dell’operazione speciale. Come infatti ricordato in queste ore, era stato proprio il presentatore a tributare sul medesimo palco Mattarella l’anno scorso, poco dopo la sua rielezione. Un omaggio pubblico che non deve essere passato inosservato: una prova del tipo di accoglienza che gli sarebbe stata riservata nell’ipotetico scenario concretizzatosi poi quest’anno. Allora Amadeus disse del Presidente che era “grande, grande, grande”, riferimento esplicito al brano di Mina. Mina, la Dea, che si è occultata qualche decennio fa e che fa dell’assenza la sua massima presenza.
Parole studiate a tavolino. Perché infatti l’attenzione dell’immutabile grandezza della prima carica dello Stato non può mischiarsi con la liquidità del Sanremo odierno, o delle canzonette che inseguono il fenomeno del momento. Mina è la grandezza intramontabile della canzone italiana, che anche se non sembra stare di casa al Festival della canzone italiana, è onnipresente nello spirito. Un riferimento costa poco e accende molto. Mina ha fatto di quest’idea il suo modus vivendi, scegliendo la lontananza dai riflettori, scompare in un elogio dell’immaterialità dello spirito fattosi carne. Ha scelto di diventare mitologica non tramite i suoi contributi artistici, ma scegliendo di essere ella stessa mitologia, trascendendo dunque la sua personalità fisica, Mina è estetica dell’oscurità, mistica del silenzio, presenza nell’assenza, appunto. Il contrario della comunicazione contemporanea, eppure la più potente di tutte. Un manifesto, per ogni comunicatore che si rispetti. Conscio o meno, il riferimento a Mina del presentatore ha fatto centro proprio per questo motivo. Perché al di là dei numeri, che verranno ridimensionati da domani o fra un quarto di secolo, il senso di Sanremo è quello di ricordarci che siamo qui, davanti alle tv o con i nostri telefoni in mano, per celebrare lo spirito immutabile. E per ricordarci altresì che quello che stiamo vedendo – le canzonette dei fenomeni – è passeggero. E dunque non occorre dargli troppo peso, né durante il Festival né il resto dell’anno, quando lo sconforto ci avrebbe prede facili con l’idea che è tutto un costante declino. Mina c’è ancora per fortuna, e ci sarà sempre. C’è il contingente, che passa, e poi c’è l’eterno che resta. Tutti inseguono il primo, a noi interessa il secondo. (…)
In alternativa, al celeste, nel mondo terrestre, ci interessa il caos. Come quella mattatrice di Chiara Ferragni, oggetto del mistero nonostante la sua apparente bidimensionalità. Il fenomeno dei fenomeni che si mostra esattamente come ce la si aspettava. Accento da ragazza milanese viziata, vestiti appariscenti, parole pesate e dirette al punto. Com’è possibile che questa ragazza sposti milioni di euro e di follower? Che sia capace di far nascere e morire progetti solamente con lo schioccare del suo smartphone. Con l’ironia che lo contraddistingue, Pietrangelo Buttafuoco ha più volte dichiarato di immaginare un futuro dove il modello culturale di riferimento era quello “ferragniano”. Fluidità, liquidità, pochi contenuti, tantissima forma. Sia ben detto, pochi contenuti solo per chi non è capace di comprenderli.
In realtà il suo monologo, tanto preso in giro, sa perfettamente a chi rivolgersi. A persone molto diverse da quelle che ridono. C’è una parte enorme del Paese, fatta specialmente di ragazze in età scolare (ma non solo), che ascoltavano quelle parole con gli occhi lucidi. Che vedono in Chiara Ferragni un modello di successo partito dal basso, con tutti gli handicap di una ragazza imperfetta e scarsamente votata alla socialità. Nei fatti un’illusione, ma creduta come il Vangelo. La prova è stata mostrata durante la prima serata: Chiara Ferragni ha aperto in diretta la pagina Instagram di Amadeus, che nel giro di poche ore ha sfiorato il milione di follower. Una cifra enorme in un lasso di tempo ridicolo, che equivale a un eguale numero di persone che hanno aperto il social e seguito la pagina solamente perché la loro eroina glielo chiedeva, velatamente. Quanti possono vantare un potere simile? Su di loro si basa il successo di Chiara Ferragni, che è capace di fungere da parafulmine di un’intera categoria, che altrimenti sfogherebbe le proprie frustrazioni in maniera anche potenzialmente dannosa.
La Ferragni è totalmente funzionale al sistema, per questo non abbandonerà mai la vetrina. Lo farà quando, come accade coi politici, perderà il contatto con la sua base. Oppure quando sceglierà di farsi politica. Uno scenario che non è così improbabile. Da amazzone a leader, il passo è breve. Il futuro dell’Italia è iniziato a Sanremo.
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