Gli aiuti alla Siria dopo il terremoto, tra indecisione e solidarietà
Con le sue estreme conseguenze nel nord del Paese, il sisma potrebbe portare a una riapertura del dialogo tra Damasco e molti Paesi con cui le relazioni sono da anni interrotte
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Con le sue estreme conseguenze nel nord del Paese, il sisma potrebbe portare a una riapertura del dialogo tra Damasco e molti Paesi con cui le relazioni sono da anni interrotte
Il terremoto dello scorso 6 febbraio ha colpito una Siria non indebolita unicamente dalla guerra. Damasco infatti si è trovata ad affrontare l’emergenza in un contesto di forte isolamento internazionale. Il Paese più vicino al governo del presidente Bashar Al Assad è la Russia, con Mosca che dal settembre 2015 è presente su richiesta dello stesso Assad per aiutare il proprio esercito a riprendere il controllo del territorio.
C’è poi l’Iran, presente in Siria con diverse proprie milizie le quali costituiscono principale preoccupazione per la difesa israeliana. Solo di recente Damasco ha stretto nuovamente contatti con la Giordania e ha avviato un processo di riavvicinamento agli Emirati Arabi Uniti.
Per il resto però, il governo siriano è ancora fuori dalla Lega Araba ed è sotto pesanti sanzioni da parte sia dell’Unione europea che degli Usa. Il terremoto però, con le sue estreme conseguenze nel nord del Paese, potrebbe portare a una riapertura del dialogo tra Damasco e molti Paesi con cui le relazioni sono da anni interrotte. Questo almeno nella fase dell’emergenza. Una circostanza non secondaria e da non sottovalutare sotto il profilo prettamente politico.
Il primo supporto internazionale giunto in Siria dopo il disastro è stato quello delle squadre di ricerca libanesi. Il personale inviato da Beirut si è integrato ai soldati dell’esercito siriano accorsi nei quartieri e nei villaggi di Aleppo rasi al suolo dalla scossa più forte. A Damasco infatti, una volta scattata l’emergenza, Assad ha riunito il gabinetto di governo e ha subito deciso di indirizzare diversi reparti non impegnati al fronte nelle zone più colpite.
Almeno in quelle sotto il proprio controllo. Occorre infatti ricordare che la Siria è dentro la morsa della guerra civile dal 2011. Dopo l’intervento russo del 2015, Damasco è riuscita a riprendere gran parte dei territori, specie a ovest dell’Eufrate, ma all’appello manca la provincia di Idlib. Tra le più devastate, stando ai racconti emersi sui social, dal terremoto.
I soldati e le squadre di soccorso libanesi però ovviamente non possono bastare. La vicina Turchia, con mezzi più moderni a disposizione e con una più vasta esperienza nel fronteggiare le calamità, ha serie difficoltà. La Siria, indebolita dalla guerra, è chiamata ad affrontare una situazione ancora più grave. Da qui le immediate richieste di soccorso all’estero. Poche ore dopo il sisma, dall’Iraq sono arrivati carichi di aiuti umanitari. Diversi aerei dell’aviazione irachena sono decollati da Baghdad in direzione di Damasco. Stesso discorso vale per l’Iran, con soccorritori e aiuti di diverso genere inviati da Teheran.
Iraq e Iran hanno però dei rapporti con la Siria e il loro apporto non ha suscitato reazioni di natura politica. Diverso è il discorso invece per altri Paesi impegnati in queste ore nell’invio di aiuti. Assad ha ricevuto la chiamata dal presidente egiziano Al Sisi, il quale ha promesso l’invio di squadre di soccorso e di cibo e medicinali già nelle prossime ore. L’Egitto è tra i Paesi più restii a riammettere la Siria nella Lega Araba. Altri aiuti stanno arrivando dagli Emirati Arabi Uniti e da altri governi del Golfo. Importante in tal senso anche la presa di posizione dell’Arabia Saudita, con Riad che ha stanziato 3.4 milioni di Dollari da girare tra Turchia e Siria. Soldi frutto di donazioni, hanno fatto sapere alla stampa locale fonti del governo.
In generale, nonostante l’isolamento politico verso la Siria stanno arrivando aiuti dall’intera regione. Anche da governi con cui Damasco non ha rapporti da tempo. A questi aiuti, occorre aggiungere poi quelli di Russia, Armenia, Pakistan e India.
Subito dopo il sisma ha tenuto banco la questione relativa alle sanzioni europee. In Italia ad esempio, sia la comunità di Sant’Egidio che l’Ong Pro Terra Sancta hanno chiesto la sospensione delle misure contro Damasco. Questo per permettere un maggiore e migliore afflusso di aiuti verso la Siria. A Bruxelles hanno però respinto le accuse relative alle sanzioni.
“La Commissione Europea respinge ‘categoricamente’ la tesi di chi sostiene che le sanzioni Ue contro la Siria impediscano l’arrivo di aiuti alla popolazione colpita dal terremoto nel nord del Paese”, ha dichiarato il commissario alle Emergenze, Janez Lenarcic. L’esponente dell’esecutivo comunitario ha parlato di aiuti già inviati e che arriveranno nelle prossime ore sia tramite il Libano e sia per mezzo delle Ong impegnate sul territorio.
Sulla questione è intervenuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani. “Il problema non è nostro – ha affermato il titolare della Farnesina – stiamo cercando di inviare materiale e mezzi tramite il Libano, ma c’è anche un problema di infrastrutture danneggiate da dieci anni di guerra”. Tajani ha assicurato che sono in corso contatti tra Farnesina e ministero della Difesa per organizzare l’invio il prima possibile di ulteriori aiuti.
Ad ogni modo, come reso noto dal commissario Lenarcic, la Siria ha chiesto ufficialmente aiuto all’Unione Europea. “Questa mattina abbiamo ricevuto una richiesta di assistenza dal governo della Siria di aiuti attraverso il meccanismo di protezione della Ue – si legge nelle sue dichiarazioni – Condividiamo questa richiesta con i nostri Stati membri e li incoraggiamo a contribuire con l’assistenza in natura come richiesto”. Un contatto di natura diplomatica c’è quindi stato. E mancava dal 2011. Un elemento da non sottovalutare in previsione futura.
C’è poi da considerare la situazione nella provincia di Idlib. Qui il controllo del territorio è nelle mani di numerosi gruppi legati all’opposizione siriana. Sigle spesso considerate, tanto da Damasco quanto dall’occidente, vicine ad Al Qaeda e all’Isis.
Non a caso è qui che sono stati scovati e uccisi gli ultimi capi dello Stato Islamico, tra cui il fondatore Abu Bakr Al Baghdadi. L’unico contatto che la regione di Idlib ha con il resto del mondo, consiste nei valichi di frontiera con la Turchia.
Valichi però chiusi da Ankara per l’emergenza che a sua volta il governo turco sta affrontando. E comunque non sufficienti a portare gli aiuti necessari a una popolazione di poco meno di quattro milioni di abitanti.
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