Burt Bacharach, il pathos all’interno del frastuono americano
È morto oggi uno dei maggiori compositori del Novecento, impropriamente collocato, troppo spesso, come autore di canzonette. Bacharach era molto di più
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È morto oggi uno dei maggiori compositori del Novecento, impropriamente collocato, troppo spesso, come autore di canzonette. Bacharach era molto di più
Burt Bacharach con la sua cantante e interprete prediletta, la grande Dionne Warwick qui in un medley di note canzoni
Di Claudio Fabretti e Fabio Pierangeli, Ondarock.it
Nel mondo effimero eppur dorato della pop music pochi tra gli addetti ai lavori possono reclamare lo status di genio. Brian Wilson, Paul McCartney, Phil Spector sono sicuramente geni che hanno saputo trasportare e trascendere l’effimero sogno adolescenziale della canzonetta “pop” in arte. E per arte si intende in questo caso non semplice evasione, ma conoscenza sia emotiva che spirituale tesa a cercare “una gravitas”, “una pienezza”, nello spazio ristretto dei pochi minuti della “canzonetta”.
Ma se dovessimo individuare colui che più di tutti ha glorificato l’arte della bellezza, del raccoglimento intimo, pudico, della profondità delle emozioni più grandi e piccole riunite magicamente insieme, sceglieremmo Burt Freeman Bacharach, il mistico esploratore ebreo perso nella Shangri-La del suo Lost Horizon.
Bacharach è George Gershwin che incontra Duke Ellington nella nascente pop music. Mentre i due citati saldano la musica colta alla tradizione blues-jazz, Bacharach va oltre, unendo le due componenti anche alla popular musical, ampliandone così orizzonti e prospettive. Bacharach si pone in questa veste come primo genio anomalo del “pop”, un genio poco moderno e poco appariscente, poco loquace e poco rock, troppo bello-borghese perché potesse creare clamori in quell’America anni 50-60 infiammata dal nuovo credo del rock’n’roll, a suo modo un anti-eroe che ha trasportato la pop-song su strade nuove.
Come giustamente dice Robin Platts: “…semplici emozioni si traducevano in musiche e parole costruite ad arte, canzoni che erano davvero molto più complesse di come suonavano. Bacharach le faceva apparire facili, ma non lo erano. Aveva spinto il songwriting verso nuove, eccitanti frontiere, con un uso innovativo di parole, ritmi e melodie”.
La grandezza della musica di Bacharach dischiude arcane emozioni, lievi e allo stesso tempo inquietanti con la leggerezza del suo tocco bacharachiano unico e inconfondibile. Non c’è musicista pop o rock o jazz che non si sia inchinato al suo talento: da Frank Zappa che ne ammirava la sofisticatezza (“prima di lui ben poco era stato fatto nel pop americano nell’ambito delle armonie bitonali e politonali”, gli riconoscerà), a Brian Wilson, che lo ha eletto come suo songwriter prediletto, agli Steely Dan (“Io e Walter Becker eravamo grandissimi fan dei dischi di Burt, ci hanno influenzato profondamente”, rivelerà Donald Fagen a Melody Maker nel 1993) a Stan Getz e McCoy Tyner, che hanno inciso due separati album tributo dallo stesso titolo (“What The World Needs Now”), e a una schiera di musicisti così disparati che citarli tutti sarebbe impossibile: Rem, Elvis Costello (con cui produrrà l’immenso “Painted From Memory“), Mark Hollis, Diana Krall, Sterelolab, Luther Vandross, Love, Oasis, White Stripes, Pretenders, Laura Nyro, Belle and Sebastian, Cardinal, Divine Comedy, Kyoto Jazz Massive, Isaac Hayes, di cui bisogna ricordare la strepitosa cover di “Walk On By” nell’album “Hot Buttered Soul“, curiosamente coverizzata anche in versione post-punk dagli Stranglers nell’Ep allegato all’album “Black & White” del 1978… la lista sarebbe davvero infinita.
John Zorn dirà di lui nelle note introduttive alla “Great Jewish Music”: “Burt Bacharach è uno dei grandi geni della musica popolare americana. Le sue canzoni superano le aspettative di ciò che una pop-song dovrebbe essere. Armonie avanzate, mutazioni di accordi con imprevedibili modulazioni, improvvisi cambi di ritmo… Ma fa apparire tutto così naturale che non te ne rendi conto e non puoi fare a meno di metterti a fischiettarlo”.
Per anni la sua musica è stata relegata a semplice muzak, easy listening, almeno fino all’esplosione della lounge music negli anni Novanta, che di fatto ha sdoganato anche Bacharach alle nuove inebetite generazioni musicofile: Nme del 1996 parla di lui come “Lounge Wizard”, Mojo nel 1998 lo definisce “A gentleman who prefers diminished sevenths”, e Q nel 1996 si spinge a ritrarlo come “a man imprisoned in music’s metaphorical lift for years”. In realtà sarebbe bastato informarsi tempestivamente per scoprire che nella formazione di Bacharach non c’è mai stato posto per l’easy listening. A cominciare dalle cruciali lezioni del maestro francese Darius Milhaud, amico di Erik Satie e componente del Gruppo dei Sei, che ebbe tra i suoi allievi personaggi come Karlheinz Stockhausen, Dave Brubeck, Philip Glass e Iannis Xenakis. Non esattamente degli habitué della musica per ascensori. Ma fu proprio Milhaud a dare a Bacharach il suggerimento decisivo: “Non vergognarti mai di scrivere una melodia che puoi fischiettare”. Lo prenderà in parola per tutta la vita.
Ma è difficile anche trovare un altro hitmaker pop che sia stato allievo di Henry Cowell e si sia nutrito di Ravel e del jazz di Dizzy Gillespie, Thelonious Monk e Charlie Parker. C’è stata la reale difficoltà di comprendere da parte di molta critica coeva il professionismo del grande artigiano, dell’uomo che ha letteralmente inventato un modo nuovo di scrivere la pop song componendo di fatto quella che chiameremmo la “chamber pop sonata”. Laddove Phil Spector opera su lente accumulazioni e stratificazioni sonore per raggiungere il climax adatto della canzone (il famoso Spector Wall of Sound), Bacharach lavora di fioretto, con una lenta ed estenuante attività di arrangiamento e produzione: “Un perfezionista, ci facevamo impazzire a vicenda”, dirà Hal David nel 2003.
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Intervista con Christian Marazzi