“Avete diritto di reagire, ma conta anche come lo farete”. Pur scosso dalle foto, mostrategli da Netanyahu, della follia stragista, sanguinaria e terroristica dei miliziani di Hamas, Antony Blinken ha ammonito Israele. C’è una ‘linea rossa’ oltre la quale, ha fatto capire il capo della diplomazia americana, non c’è solo il mancato rispetto del diritto umanitario internazionale (quel tipo di impegno che lo Stato ebraico non ha mai tenuto in gran conto, violando per esempio 28 risoluzioni dell’ONU, fra cui il ritiro dai territori palestinesi occupati).
C’è anche la preoccupazione – statunitense, europea, e delle capitali arabe dialoganti con Gerusalemme – che un eccesso di “retaliation”, una ritorsione che si abbatta con effetti disastrosi, soprattutto e inevitabilmente, sulla popolazione palestinese di Gaza, avrebbe conseguenze ad ampio spettro: le proteste popolari nei paesi musulmani (non necessariamente solo medio-orientali); il probabile congelamento se non proprio la fine degli “Accordi di Abramo” (riconoscimento diplomatico reciproco fra Israele e alcune monarchie del Golfo, con l’Arabia Saudita incamminata a sua volta nella stessa direzione); riattivazione dei “lupi solitari” jihaddisti che commisero stragi nel vecchio continente, dalla Francia al Belgio alla Germania; le fiammate dell’antisemitismo; in più il rischio dell’estensione del conflitto a livello regionale, già in fìeri con i primi razzi dell’Hezbollah libanese lungo la “linea blu” del Nord e la replica armata di Israele con i bombardamenti degli aeroporti di Damasco e Aleppo, perché anche nella Siria di Assad vi sono basi e santuari del “partito di Allah”. Senza dimenticare gli ‘ispiratori’, e anche formatori, dell’Iran della Rivoluzione islamica, che Israele ha spesso progettato di colpire in caso di necessità con un attacco preventivo.
Un immenso braciere, dunque. Predisposto ad infiammare l’intera area, con la prospettiva di potenze occidentali impegnate a tutelare la sicurezza di Israele, oltretutto potenza nucleare (mai ammessa ufficialmente dai governi di Gerusalemme, anche se tutti sanno che collocati in silos nella regione di Dimona, deserto del Negev, vi sono più di venti testate atomiche). Il governo di Benjamin Netanyahu, diventato di semi-unità nazionale, con l’entrata in particolare dell’ex premier e generale Ganz, non poteva non tener conto della ansie di alleati e amici. Ha dunque annunciato di aspettare 24 ore prima dell’entrata dei suoi uomini e dei suoi carri armati nella Striscia, annuncio che è anche un avvertimento e un ordine; 24 ore in cui pretende che oltre un milione dei suoi abitanti, che vivono e hanno un rifugio grazie all’aiuto umanitario delle Nazioni Unite, si trasferisca al sud di Gaza, a ridosso del confine egiziano. Ma obiettivamente sembra più una provocazione che un gesto di umanità. Poche ore per un trasferimento in massa, intere famiglie già colpite dal blocco di cibo, acqua, medicinali, carburante; tutti i pazienti degli ospedali gazawi intasati di malati e feriti, dove le autoambulanze sono insufficienti anche in tempi di “normalità”; e con Hamas – una dittatura che non esita a usare gli abitanti come ‘scudi umani’ – che ha già ordinato ai civili di non muoversi, e si intuisce quale potrebbe essere la feroce determinazione degli islamisti nei confronti di concittadini “indisciplinati”. Davvero una missione impossibile, gravida di ‘conseguenze umanitarie’ ha ammonito l’ONU.
Una popolazione, quella di Gaza, tre volte “prigioniera”. Prigioniera di Tsahal, che ha ri-sigillato la Striscia (sui quattro lati, anche quello marittimo) e naturalmente chiuso l’unica via di uscita a Nord, il punto di passaggio di Erez, che introduce al territorio israeliano (sono oltre 300.000 i riservisti mobilitati e i militari pronti all’assalto). Prigioniera del suo stesso governo jihadista, consapevole che la ‘vendetta’ israeliana (così definita da un Netanyahu sempre più sotto la critica dei suoi concittadini) avrebbe colpito soprattutto i civili, di cui si serve, come è sempre avvenuto in passato. Prigionieri anche dell’Egitto, che di riprendersi Gaza (sua fino al ’67) non ne ha mai voluto saperne e che tiene ancora ben chiusa la frontiera meridionale, che già era un ostacolo quasi insormontabile in passato, visto che per attraversare quel confine occorreva superare una serie di obblighi burocratici inventati proprio per ridurre al minimo (qualche decina transiti al giorno) l’esondazione in massa verso un Sinai già avvelenato dalla presenza dell’Isis, che assalta regolarmente caserme e posti di polizia egiziane. E’ ormai da oltre mezzo secolo che da Gaza quasi nessuno può uscire (tranne, anni fa, nel periodo in cui lavoratori gazawi contingentati avevano il permesso di andare a lavorare nei vicini campi e nei cantieri di Israele). Abitata, la Striscia, col suo record di intensità demografica) da una maggioranza di giovani e giovanissimi. Una generazione che ha conosciuto soltanto la vita esasperante dell’assedio interno ed esterno. Ricordo che la prima volta che entrai a Gaza, incontrato un gruppo di giovani locali su una larga strada sterrata, mi parlavano di “Sharon Boulevard”: lo avevano così battezzato perché nella guerra dei sei giorni, per arrivare il prima possibile nel Sinai, i carri armati del generale e futuro premier avevano attraversato il centro della città, abbattendo le baracche che trovavano sulla loro strada.
E’ che, oltretutto, la Storia si alimenta, cresce, e rovinosamente si abbatte sulle sue vittime anche attraverso terribili paradossi. E’ amaro segnalare oggi che una quarantina di anni fa proprio Israele (che ancora occupava militarmente tutta Gaza) favorì la nascita di Hamas. Riempire le moschee per indebolire e contrastare i laici dell’OLP guidata da Yasser Arafat; così Israele incoraggiò gli islamisti ad organizzare una rete di assistenza sociale (mense, aiuti economici, ambulatori medici, centri ricreativi) ritenuta comunque più semplice da controllare. L’islam politico non era ancora lievitato nel mondo arabo. Ma dopo aver vinto le elezioni a Gaza nel 2005 (l’OLP negò la legittimità delle urne), e poi impossessatasi di quel territorio anche con la lotta armata contro i “fratelli separati e laici”, Hamas diventò un nemico sempre più armato anche di chi l’aveva messa nella culla. Israele sta pagando col sangue un catastrofico errore. In una rovina che ha contribuito a depotenziare l’OLP, e anche a lasciare in “gabbia” due milioni di civili. Ed è incredibile ricordare che in occasione dell’ultima elezione organizzata fra i palestinesi, ma annullata prima che si svolgesse, i sondaggi dicevano che la maggioranza dei gazawi avrebbero preferito votare OLP mentre nella Cisgiordania occupata ci sarebbe stata una forte crescita degli islamisti. Tasselli di un mosaico che anticipava la discesa agli inferi.
Nell’immagine: Gaza oggi