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Di Guia Soncini, Linkiesta

L’italiano che non esisteva lo interpretava un francese. L’italiano mite, ligio, schiacciato dall’altrui veemenza, mitomania, istrionismo, italianità. A fare l’antitaliano, nessuno era bravo come Jean-Louis Trintignant.

Sì, bisognerebbe parlare di “Amour”, forse l’unico suo film che dica qualcosa ai viventi d’un’epoca che non ha memoria: mica pretenderemo il pubblico conosca le filmografie di quando c’era la lira, suvvia. (A chi era vivo nel secolo scorso, “Amour” pare la versione elegante di “Betty Blue”, uno dei punti di riferimento kitsch d’ogni formazione novecentesca).

O magari bisognerebbe parlare di “Un uomo, una donna”, il sentimentalismo che piaceva a tutte, alle intellettuali e alle massaie, il “Casablanca” del cinema a colori, la storia d’amore che non c’era ma che tutte volevamo.

Avendoci mai capito qualcosa, forse si dovrebbe citare “Il conformista”, ma purtroppo l’unica cosa mai risultatami chiara di quel film è che meraviglia fossero i vestiti della Sandrelli.

Sarebbe inutile chiedersi come si sopravvive a una figlia che ti muore così, ammazzata di botte dal tizio con cui sta, uno strazio che è impossibile immaginare, una di quelle cose di fronte alle quali ci si vergogna di dire frasi di circostanza quali «So cosa provi»: la risposta l’aveva già data lui, era il titolo della sua autobiografia. “Alla fine ho deciso di vivere”.

La vera verità è che ciò in cui è stato più prezioso Trintignant è stato raffigurare quello che non siamo, che non sapevamo e non sappiamo essere. Che fosse in capolavori come “Il sorpasso” o “La terrazza”, o in titoli minori che cercavano di mungere collaudate coppie di successo (“Il successo”, appunto), Trintignant faceva come nessuno il mite vessato dal cialtrone. Erano personaggi italiani, scritti da sceneggiatori italiani, e pensati come italiani. Ma erano talmente antitetici al carattere italiano che serviva un forestiero per dar loro corpo.

Lo studente de “Il sorpasso”, così timido che per conoscerlo servì la voce fuori campo: serviva sentirne i pensieri mentre meditava di sottrarsi all’invadenza di Vittorio Gassman che compariva in strada e, rivolgendoglisi alla finestra, finiva per monopolizzargli la giornata (e ucciderlo, sia detto senza che vi agitiate accusandomi d’avervi svelato il finale d’un film di sessant’anni fa).

Progettava ribellioni, Roberto, di cui Bruno Cortona non si degnava d’apprendere il cognome, che non metteva in atto mai. Era uno che stava a casa a studiare a Ferragosto, e si ritrovava in balìa di uno che non sapeva cosa fosse il senso del dovere, che non sapeva cosa fosse l’attendibilità, che non sapeva cosa fosse il Super-Io. Di un italiano.

Avrebbe potuto farlo Mastroianni? Forse di tutti quelli lì era l’unico che sarebbe stato pensabile come mite; ma la vera verità è che, al suo meglio, il cinema italiano era fatto d’italiani, di Sordi, di Tognazzi, di Gassman: di perfettissime incarnazioni di mitomani.

C’è una scena ne “Il successo”, un filmetto con cui Risi tentò di mungere il successo de “Il sorpasso”, in cui a Trintignant non tira con la ragazza che gli piace. Gassman gli porta due mignotte, e a Trintignant non tira neanche con loro. Certo che Sordi avrebbe potuto fare uno cui non tira (che cos’è Il vedovo, se non una continua allegoria dell’uomo cui non tira?), ma non ti saresti mai intenerito per lui, non gli avresti mai voluto bene, non avrebbe avuto quel candore, quella fragilità.

Quella mitezza pure nell’incazzatura con cui, nella “Donna della domenica”, chiede ad Anna Carla Dosio se lei e Massimo non si stanchino mai di essere intelligentissimi (e s’intravede una ricorrenza: la più torinese delle torinesi la interpretava Jacqueline Bisset, una francese).

Il mio Trintignant preferito è quello che sta nel mio film preferito, negli anni in cui l’epoca d’oro della commedia all’italiana andava a declinare. Era il 1980, e nella “Terrazza” (sta su RaiPlay, mollate questo articolo e andate a vederlo) si conoscevano tutti, andavano tutti alle stesse cene, tutti rendevano la vita di tutti un inferno.

Il più in balìa di tutti era Trintignant, uno sceneggiatore al quale il produttore interpretato da Ugo Tognazzi chiedeva ossessivamente, del film che stava scrivendo, «Fa ridere?». Nessuno che di mestiere scriva, ma anche solo nessuno che non sia completamente ottuso, dopo aver visto La terrazza potrà mai più sentir chiedere «Fa ridere?» senza trovarla la più angosciante delle domande.

Non è che nella “Terrazza” manchi il tragico – c’è persino un funzionario Rai anoressico che si lascia morire – o il grottesco – Tognazzi viene trattato come il figlio della serva dalla moglie, e si tinge i capelli con una disperazione che vede gli uomini del futuro e li pitta impietosamente – ma Trintignant è un’altra cosa. Trintignant – sto per guastarvi la sorpresa d’un film di quarantadue anni fa – prende il temperamatite elettrico e ci si macina una mano, per la disperazione del foglio bianco, della consegna che non riesce a rispettare, del Super-Io che non riesce a essere così italiano da non avere.

È lo stesso personaggio che nello stesso film diceva al figlio «Continua a non fare un cazzo, non studiare, non lavorare, tanto c’è papà che ci pensa: ma papà s’è stufato!», e quello rispondeva «Papà, sono due anni che lavoro in banca». Giacché, come diceva Gassman sempre in quel film, e riassumendo quegli anni di cinema italiano meglio di quanto potesse mai farlo la critica, «Ormai siamo tutti così: personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente».

Però con quella fragilità lì, con quello smarrimento lì, con quell’aria di chi sta in un angolo non certo perché lo si noti di più, così sapeva farlo solo un forestiero in prestito.

Nell’immagine: Trintignant ne “Il sorpasso”, di Dino Risi (1962)






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