Pareva di assistere a una
fiction il 4 agosto scorso per le vie della cittadina rurale di Matagalpa (nel nord del Nicaragua): mons. Rolando Alvarez innalzava l’ostensorio del “santissimo” benedicendo in ginocchio gli ufficiali della polizia che lo sorvegliavano. Mentre gli agenti imbarazzati si scostavano ogni volta più in là, sotto l’inesorabile obiettivo degli
smartphone.
Sta di fatto che il prelato è rimasto rinchiuso per ben due settimane nella curia vescovile senza poter uscire né rifocillarsi (insieme ad altri cinque sacerdoti e tre seminaristi) con l’accusa di presunti “crimini di lesa umanità” e per “incitamento all’odio”. Che è poi uno degli ultimi reati inventati dalla cattolicissima (molto a modo suo) Rosario Murillo, vicepresidente nonché consorte di Daniel Ortega. Che a sua volta aveva qualificato tempo addietro gli ecclesiastici come terroristi.
Finché la notte del 19 agosto reparti speciali di sicurezza hanno prelevato con la forza il presule trasferendolo agli arresti domiciliari nella casa dei genitori a Managua, dove gli ha fatto visita l’attuale arcivescovo metropolitano cardinale Leopoldo Brenes. Mentre gli otto suoi collaboratori sono stati tradotti direttamente nel carcere capitalino del Nuevo Chipote.
Durante la rivolta popolare del 2018, soffocata nel sangue dal regime orteguista, mons. Alvarez si era esposto dal pulpito in difesa delle libertà democratiche oltre che di quella religiosa. Da allora, una volta azzerati i partiti dell’opposizione e silenziata la stampa, oltre che qualsiasi espressione della società civile (con la chiusura di oltre 1.400 Ong sia nazionali che straniere) al clan della famiglia Ortega non restava che prendere di mira la chiesa cattolica, che aveva offerto protezione ai giovani ribelli nei propri templi oltre ad aver svolto (invano) un ruolo di mediatrice fra le parti. Sono così iniziate le intimidazioni e le irruzioni nei luoghi sacri; fino alla profanazione, nel marzo 2020, dei funerali del padre/poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura durante la rivoluzione sandinista; e il successivo devastante attentato incendiario della cappella del sangue di Cristo nella cattedrale di Managua.
Domenica scorsa, dopo il clamoroso arresto del monsignore, papa Francesco ha fatto riferimento al Nicaragua durante l’Angelus manifestando “preoccupazione e dolore” e ricevendo l’immediato plauso dell’episcopato locale. Tuttavia alcuni dei suoi detrattori, che gli rimproveravano il prolungato silenzio sul persistente accanimento contro la chiesa nicaraguense, considerano ancora fin troppo cauta la sua breve locuzione poiché neppure ha menzionato il fermo del prelato e soprattutto perché auspica “un dialogo aperto e sincero per una convivenza rispettosa e pacifica” in Nicaragua.
C’è chi ricorda al pontefice di aver affermato tempo addietro che “con il diavolo non si dialoga …”. In questo caso satana sarebbe impersonato dal presidente Daniel Ortega e soprattutto dalla sua vice Murillo, che in Nicaragua qualcuno soprannomina “la papessa”: una cattolica integralista che porta alle dita almeno una trentina di anelli, ciascuno contro un malocchio differente; e che quando il “fu” comandante guerrillero tornò al governo nel 2007 introdusse per la prima volta nel paese una legge che proibiva l’aborto, compresi i casi di violazione e pericolo di vita della gestante. Si fece pure risposare con Ortega nella cattedrale dal cardinale Obando y Bravo per ingraziarsi i favori dell’allora arcivescovo di Managua (che era stato il più feroce nemico interno durante la rivoluzione sandinista). Salvo poi promuovere le visite di predicatori delle sette fondamentaliste dagli Stati Uniti.
Di tono ben più netto contro l’arresto sono state le condanne giunte da vari episcopati latinoamericani ed europei, compresa la “solidarietà” espressa dal presidente dei vescovi italiani cardinale Matteo Zuppi, che ha parlato di “dure persecuzioni” e di “atto gravissimo contro la libertà di culto e di opinione”.
Anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, ha manifestato la propria preoccupazione per “la grave ostruzione dello spazio democratico in Nicaragua e le recenti azioni contro le organizzazioni della società civile e religiose”.
L’unica nota di biasimo ufficiale di un esponente della Santa Sede era venuta da Juan Antonio Cruz Serrano, rappresentante permanente della Segreteria di Stato presso l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che ha condannato al riguardo il Nicaragua con 27 voti a favore, 1 contrario (San Vicente), 4 astensioni (Messico, Bolivia, El Salvador e Honduras) e l’assenza di Colombia e Nicaragua (oltre che di Venezuela e Cuba).
Nei giorni precedenti la cattura di mons. Alvarez, solo il filosofo messicano Rodrigo Guerra, segretario del Pontificio Consiglio per l’America Latina, aveva giustificato il basso profilo seguito da papa Francesco affermando: “il silenzio del papa non significa che non sia informatissimo su quanto accade in Nicaragua; lui e la Santa Sede lavorano con discrezione…”. A dargli sponda il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, strettissimo collaboratore di Bergoglio in quanto coordinatore del Consiglio dei cardinali che ha redatto la recente riforma della costituzione vaticana.
Intanto mons. Alvarez, che è pure amministratore apostolico di Estelì, rischia ora l’esilio forzato quale mediazione offerta dalla coppia presidenziale. Ma il vescovo, da cittadino nicaraguense quale è, resiste, a rischio di finire nelle segrete del Nuevo Chipote, dove sono già rinchiusi da oltre un anno in condizioni disumane quasi duecento dissidenti delle più diverse tendenze politiche; a partire dai candidati presidenziali che non hanno potuto conseguentemente partecipare alla farsa elettorale del novembre scorso dove Ortega si è perpetuato al potere per la quarta volta consecutiva.
Per non parlare del destino degli altri suoi otto collaboratori nel frattempo già incarcerati nella stessa prigione pur ancora “sotto indagine”. I quali ieri hanno ricevuto sulla rete social un coraggioso comunicato di sostegno di tutto il clero della diocesi di Estelì.
Insomma un complicato dilemma per la Conferenza episcopale nicaraguense, assai prudente fin dall’inizio di questa crisi; ma anche in occasione della cacciata in marzo del nunzio apostolico Waldemar Sommertag, dell’arresto di altri tre preti, della recente espulsione di 18 suore di madre Teresa di Calcutta e la chiusura d’autorità di una decina di radio cattoliche.
Il problema è che il fronte ecclesiastico è diviso dopo che uno dei vescovi, mons. René Sándigo di Leòn e Chinandega, chissà se per qualche inconfessabile ricatto, si è apertamente schierato col governo. Ancora lo scorso fine settimana ha inaugurato ostentatamente col sindaco orteguista locale il nuovo giardino della curia. Il che può spiegare il timidissimo tono dei comunicati di presa di distanza dal regime da parte dell’episcopato (oltre che del pontefice).
Regime che a sua volta, per eccessiva esposizione, comincia a registrare malesseri tra le sue fila. Con Ortega relegato ai margini per la sua malferma salute; e l’esoterica tuttofare Murillo, da sempre assai detestata, sempre più incontenibile. Il tutto a rischio, prima o poi, di un’implosione.
Nell’immagine: mons. Rolando Alvarez bloccato dalla polizia