Viva il quiet quitting!
Contro il logorio della vita lavorativa, un’idea diversa di lavoro, che faccia vivere diversamente
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Contro il logorio della vita lavorativa, un’idea diversa di lavoro, che faccia vivere diversamente
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Contro il logorio della vita lavorativa, un’idea diversa di lavoro, che faccia vivere diversamente
Interessante perché potrebbe esprimere un cambio di paradigma questa volta antropologico e non meramente tecnologico, capace di rovesciare quarant’anni di ideologia neoliberale, cioè di mercato del lavoro iper-competitivo e iper-flessibile dove tutti devono essere in concorrenza con tutti e con salari tendenzialmente low cost perché così è imposto dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale. Un mercato del lavoro neoliberale-deregolamentato dove che tu sia leone o gazzella, importante è correre sempre più velocemente; o, detto con una metafora diversa, dove tutti devono viversi come criceti che devono correre velocemente e incessantemente nella ruota della loro gabbietta; oppure, dove tutti devono introiettare quanto detto tempo fa da Jeff Bezos per i suoi iper-sfruttati dipendenti, magazzinieri e corrieri: It’s still day one, cioè è sempre il primo giorno, bisogna sempre dare il massimo di sé per l’impresa senza mai rallentare e semmai accelerare, perché il secondo giorno è già stasi, lentezza, declino, abitudine…e questo è male per l’impresa (e per i profitti di Bezos).
Da quarant’anni le retoriche manageriali (la realtà del lavoro è invece molto diversa) e i media e i politici mainstream ci dicono che ciascuno è un virtuoso capitale umano che deve valorizzare se stesso sul mercato; che dobbiamo attivarci sempre più in self management; che fondamentali sono il nostro engagement e il nostro empowerment (tutto in inglese, ovviamente, perché fa più figo e soprattutto sembra nuovo e bello – dimenticando che qualcosa di non molto diverso scriveva anche Taylor cento e più anni fa nell’esempio dell’operaio Schmidt); che dobbiamo essere imprenditori di noi stessi; che dobbiamo convincerci di non essere più lavoratori ma collaboratori dell’impresa e dell’imprenditore/manager, che a sua volta non sarebbe più il padrone o il capo di un tempo ma un leader carismatico/empatico che vuole la felicità dei suoi collaboratori; eccetera, eccetera.
Ora c’è appunto il quiet quitting. Che significa mettere sempre la propria vita prima del lavoro, senza però licenziarsi e rinunciare allo stipendio, ma lavorando solo il minimo indispensabile per conservarlo. Una tendenza che coinvolgerebbe soprattutto i giovani – millennial e generazione Z – e riguarderebbe sia gli Usa che l’Europa e la Cina. Perché infatti dannarsi – sembrano pensare questi giovani – in un lavoro precario e a tempo determinato senza prospettive di futuro; perché passare ore davanti a un pc senza reali prospettive di carriera; perché dover credere davvero di poter essere imprenditori di se stessi se poi il sistema, al di là appunto delle sue retoriche, produce esattamente il contrario e impoverisce il lavoro di contenuti e di conoscenza; perché vedere il nuovo là dove non c’è – e siamo infatti sempre nel taylorismo e nel fordismo, anche se digitale e siamo sempre nella divisione del lavoro e nella sua organizzazione, comando e sorveglianza eterodiretta da parte dell’impresa e anche il manager non è un leader ma è sempre più un algoritmo e tutti siamo dipendenti da una piattaforma?
Tutto questo è confermato – insieme smontando appunto le retoriche manageriali viste sopra – da uno studio Gallup (“State of the global work-place 2022 Report”) per il quale solo il 21% dei dipendenti si sente coinvolto dal/nel lavoro (cade quindi la favola dell’essere collaboratori) e solo uno su tre si sente in una condizione di benessere (e quindi, quasi il 70% lavora male), mentre il 44% si dice stressato.
Se il quiet quitting diventerà davvero una tendenza reale e soprattutto duratura, trasformerà forse (forse) il vecchio e sempre rinnovato Beruf weberiano (il lavoro come vocazione dell’uomo, la vita come lavoro, il lavoro come vita) in qualcosa di molto diverso. Produrrà forse (forse) la fine dell’organizzazione scientifica del lavoro di ieri (Taylor) e di oggi (appunto il taylorismo digitale dell’Industria 4.0 e delle piattaforme). Darà il segnale che (forse) il neoliberalismo è finalmente morto, ma non per le sue contraddizioni interne (vive anzi di queste contraddizioni, quindi non le risolverà mai), bensì per una reazione umana e umanistica ai suoi eccessi e alla sua coazione a ripetere le sue paranoie e il suo cinismo. Certo, il quiet quitting è una condizione esistenziale individuale, anche se di molti, che quindi non produce – direbbe Marx – coscienza di classe e conflitto. Ma in società cinicamente iper-individualiste e iper-competitive come le nostre sarebbe già molto se si diffondesse sempre più.
La reazione neoliberale e imprenditoriale è prevedibile: questi giovani si stanno ammosciando, sono scansafatiche – se non, e peggio, sono fancazzisti. Non sono determinati a fare (produrre, consumare, generare dati sempre di più) come invece servirebbe al tecno-capitalismo, ma vogliono vivere meglio: che scandalosa eresia! Quindi il sistema farà di tutto, ne siamo certi, per rimetterli sulla retta via. A noi piace però sognare – pur sapendo che saremo smentiti – che il quiet quitting sarà una tendenza che si consoliderà davvero. Noi tutti facendoci anche così più sostenibili nei confronti di una Terra sempre più stressata dopo tre secoli di rivoluzione industriale e di capitalismo.
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