L’industria della felicità e la società infelice
Sviluppo, progresso, diritti, libertà: quanto hanno a che fare con un’idea di “felicità”?
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Sviluppo, progresso, diritti, libertà: quanto hanno a che fare con un’idea di “felicità”?
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Sviluppo, progresso, diritti, libertà: quanto hanno a che fare con un’idea di “felicità”?
Gustavo Petro – uomo di sinistra e leader del Pacto Histórico – ha vinto le presidenziali colombiane del 19 giugno – anche se con una maggioranza risicatissima del 50,46% – contro il populista neoliberista e filoamericano Rodolfo Hernandez. La sua vice-presidente, Francia Márquez, afro-colombiana, femminista ed ecologista, è promotrice di un vivir sabroso, un modello di organizzazione sociale, economica, culturale, ma anche spirituale centrato sull’armonia tra gli esseri umani e di questi con la natura: modello lontanissimo dalla cultura occidentale, dal dogmatismo neoliberale e dallo sfruttamento tecno-capitalista di uomini e ambiente che ci hanno portato alla crisi climatica, ambientale e sociale di oggi. Vedremo se l’esperienza colombiana di Petro e Márquez resisterà alla Cia, alla Dottrina Monroe e ai mercati finanziari.
In Europa, invece, stesso giorno, il secondo turno delle elezioni in Francia (53% di astensione, 70% di astensione tra i giovani di 18-24 anni), ha visto la moltiplicazione per undici dei seggi per il neofascismo/populismo di Marine Le Pen, neoliberista della corrente nazionalista, sovranista e xenofoba. Elezioni che sono state sicuramente una grande vittoria per Putin (un suo potente cavallo di Troia è entrato in parlamento a Parigi) e una grande sconfitta per Macron, anch’egli neoliberista, ma della corrente europeista/perbenista/elegante.
A compensare l’esito inquietante di queste elezioni francesi c’è stata la novità della sinistra antiliberista e ambientalista di Mélenchon e della Nupes: idea interessantissima della sinistra francese, anche se lo stesso Mélenchon ha poi confessato di avere sperato in molto di più. Nupes che non è un movimento populista (anche se la campagna di discredito dei media neoliberali è iniziata da tempo, bollando Mélenchon come il Chavez di Francia) ma che esprime piuttosto – come Petro, ma in un contesto diverso – un progetto di cambiamento: qualcosa che le sinistre europee hanno da tempo dimenticato e che, dopo avere abbandonato la vecchia distinzione tra riforme e rivoluzione le porta a favorire se non a promuovere esse stesse la controrivoluzione perpetua neoliberale – mentre proprio la crisi climatica sempre più grave ci dice quanto un cambiamento sia necessario e soprattutto urgente. Un progetto di cambiamento che sembra voler rispondere in senso progressista alla rabbia e alla infelicità dei francesi.
Ad aiutarci a ripensare la nostra idea di progresso, cercando alternative a questo pessimo sistema economico e tecnologico, ci aveva pensato Papa Francesco con la sua enciclica Laudato si’! del 2015, fatta però dimenticare in fretta dai mass media mainstream. Molti altri lo avevano fatto prima di Francesco, da fronti diversi, su tutti la Scuola di Francoforte con la sua Teoria critica.
Ora ci aiuta un libretto del sociologo italiano Domenico De Masi – professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma – dal titolo: La felicità negata, pubblicato da Einaudi. Una storia essenziale (poco più di cento pagine) ma molto utile per capire come il neoliberalismo ha conquistato l’egemonia nel mondo, producendo disuguaglianze crescenti ma promettendo una accattivante ma falsa libertà e felicità. Falsa perché il neoliberismo è illiberale e disuguagliante in sé e per sé, favorendo i ricchi, la finanza, l’oligopolio delle nuove tecnologie, la precarizzazione e l’impoverimento del lavoro e della vita, la disruption sistemica e crescente; falsa perché – e lo ricorda bene De Masi – i suoi ideologi hanno sempre preferito un autoritarismo favorevole al mercato a una democrazia capace di porre limiti al mercato; falsa libertà e falsa felicità neoliberali che tuttavia hanno scavato nel profondo delle società occidentali cancellando quasi del tutto ogni capacità di liberazione e di emancipazione dell’uomo e portando semmai al paradosso del crescere delle disuguaglianze e della rabbia popolare e insieme del populismo e delle destre, così garantendo la conservazione e la riproducibilità dello stesso sistema ideologico neoliberale che produce disuguaglianze e crisi ambientale, quindi regresso e non progresso.
Ricordando l’incipit della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti del 1776 – “tutti gli uomini sono creati uguali e hanno diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità”, cioè: la ricerca della felicità è diritto inalienabile – De Masi scrive: “come può esserci progresso senza felicità e come si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele”?
E perché – aggiungiamo – abbiamo creduto che la felicità e la way of life migliore del mondo fossero quelle americane fatte di consumo e consumismo, finendo per inchinarci oggi verso lo schermo di uno smartphone e alla piccola felicità indotta dalla dopamina che si attiva in noi ad ogni like che riceviamo? E perché non vediamo che questo è un classico meccanismo di stimolo/risposta fatto apposta per accrescere la nostra dipendenza dai social e così continuare a produrre dati e dati e ancora dati, alienando/svendendo totalmente la nostra vita al Big Data (altro che social…)? Perché abbiamo creduto alla promessa di felicità che ci arrivava dal tecno-capitalismo negli anni ’90 – le nuove tecnologie permetteranno meno lavoro, meno fatica, più tempo libero e una nuova era di crescita illimitata – ritrovandoci oggi nel totale fallimento di quella promessa di felicità e di crescita economica perché era anche questa una falsa promessa, narrata in realtà solo per accrescere ancora di più lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente da parte del tecno-capitalismo, permettendogli di estrarre plusvalore oggi anche dalla vita umana e sociale (questo sono i nostri dati) e non solo dal lavoro delle persone?
Perché abbiamo creduto che più tecnologia ci avrebbe dato più felicità (la liberazione del lavoro e addirittura dal lavoro), dimenticando che proprio la tecnologia – che pure ci offre comodità e apparente benessere – per sua essenza tende a produrre sempre l’esatto contrario, cioè accelerazione dei ritmi, intensificazione dei tempi, alienazione e delega alle macchine, integrazione dell’individuo nel sistema ma anche – oggi – ibridazione uomo-macchina, dove l’uomo non è più appendice della macchina (Marx), ma, e peggio, è sussunto nella e con la macchina? E perché non ci domandiamo come mai al crescere della nostra infelicità (depressione, dipendenza, disuguaglianze, crisi climatica, concorrenza, violenza, oggi guerra in Europa), il sistema tecno-capitalista non ne rimuova le cause (il perché in realtà dovremmo averlo ormai capito), ma industrializzi per proprio profitto anche la ricerca della felicità, vendendoci beni e merci come il wellness e il fitness, il gioco, il divertimento compulsivo, le mode, la movida, creando nelle imprese i manager della felicità, vendendoci i libri di Daniel Goleman e molti manuali di pseudo-filosofia e molto psychiatric-help via internet?
Ma torniamo a De Masi, per il quale questa “inumana disuguaglianza, non avviene a caso, ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità. Lo aveva capito già molto bene Karl Marx: Siccome una società, secondo [Adam] Smith non è felice dove la maggioranza soffre […] bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica”. Ovvero, l’economia è una scienza triste per definizione e vocazione… e per nasconderla industrializza anche la ricerca della felicità o si allea alla tecnologia, che invece sembra renderci felici offrendosi a noi come un meraviglioso giocattolo, sempre nuovo e diverso.
Con De Masi molte cose ci accomunano, ma anche ci dividono: lui scrivendo ad esempio di società postindustriale, noi affermando invece che mai la società e la vita dell’uomo sono state tanto industrializzate come oggi, soprattutto quando si producono beni immateriali e dati; lui scrivendo che se nella società industriale era il lavoro “a egemonizzare la vita, oggi è sempre più vero il contrario” grazie alle nuove tecnologie, noi sostenendo invece che, proprio grazie alle nuove tecnologie il lavoro egemonizza ancora di più la vita facendo sfumare i confini tra lavoro e vita. De Masi ripropone come possibile soluzione al problema della felicità negata quello che chiama l’ozio creativo – “la soave capacità di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria” – che a noi sembra in realtà ciò che il tecno-capitalismo ha già realizzato da tempo, trasformando anche il navigare in rete, la conoscenza e il giocare in fonti di profitto e in industria.
Il libro di De Masi è comunque utilissimo e se ne consiglia caldamente la lettura. Ma forse la felicità dobbiamo cercarla in altro modo. E forse altrove.
Nell’immagine: la felicità come prodotto commerciale
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