L’eclissi del pensiero critico e altre sfide per la formazione (prima parte)
Domande scomode e addomesticamento della critica
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Domande scomode e addomesticamento della critica
• – Fabio Merlini
Dalle origini ai nostri giorni, i mutamenti di questa forma di militanza. Il caso Cospito l'ha riportata sulle copertine
• – Redazione
Ma giornali e politica scelgono di ignorarlo
• – Redazione
Divertimento carnascialesco economico
• – Silvano Toppi
Verso una nuova politica industriale?
• – Christian Marazzi
Privati degli aiuti, vittime di linciaggi e costretti a pagare gli spostamenti che per i turchi sono gratis. La denuncia di ong e sindacati: picchiati da gang nazionaliste ed esclusi dai soccorsi
• – Redazione
Il discorso di dimissioni della premier scozzese Nicola Sturgeon. Un grande esempio di concezione della politica e della sua dimensione di “servizio del Paese”
• – Redazione
Grazie a un arzigogolo da azzeccagarbugli, Berlusca Pascià assolto con tutte le sue olgettine per insussistenza di reato
• – Franco Cavani
Nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale
• – Christian Marazzi
Dick Marty rivela in un nuovo libro uscito in francese i meccanismi serbi di un "piano folle". Ancora oggi teme per la sua vita, ma la minaccia potrebbe provenire da estremisti di lingua albanese
• – Redazione
Domande scomode e addomesticamento della critica
Le sfide cui è confrontata oggi la Formazione non sono diverse da quelle che interessano la formazione professionale. È vero però che la loro urgenza interroga quest’ultima in un modo ancora più rilevante. Per una ragione del tutto evidente. Quando si parla di formazione professionale si parla anche sempre di una formazione orientata a qualcosa che non è principalmente la formazione di sé nel senso del libero e armonico sviluppo dello spirito umano – che è poi il concetto schilleriano e goethiano di Bildung: lo spirito che si affranca dall’imperio dell’utilità e della necessità, per dare forma alla libera verità di se stesso.
Laddove si parla di formazione professionale, siamo piuttosto in un campo dove ciò a cui si mira principalmente è appunto la dimensione del lavoro, cioè il piano pratico-empirico delle abilità che permettono a una qualsiasi attività di “fare economia” e di “stare sul mercato” in modo consapevole e funzionale. Ossia di partecipare attivamente alla catena della produzione del valore.
Sappiamo che da questo punto di vista il modello svizzero è del tutto esemplare, per la sua capacità di articolare curricula formativi in linea di principio sempre aggiornati, quindi contestualmente professionalizzanti. Il che significa: aderenti alle logiche che via via riaggiornano, con la speranza che rimanga sempre virtuoso, il circolo tra produttività, competitività e crescita. Qui il partenariato pubblico-privato mostra tutta la sua invidiabile efficacia. E ciò che assicura il successo del modello duale della formazione professionale in Svizzera: un modo di concepire il rapporto scuola/lavoro a cui dall’esterno si guarda con grande ammirazione e interesse.
Tuttavia, possiamo chiederci questo. Quando siamo nel quadro di una emergenza inaudita (più di una crisi: una catastrofe) che incrina il rapporto tra Civiltà e Natura, poiché per la prima volta nella storia dell’umanità le nostre risorse tecno-culturali appaiono improvvisamente disfunzionali alla regolare e pacifica rigenerazione del sistema delle risorse naturali e del suo equilibrio; quando l’attività dell’uomo risulta del tutto incompatibile con l’attività della natura, anche nel caso della sedicente leggerezza immateriale delle attuali tecnologie elettroniche ultrarapide e “pulite”, che sappiamo invece avere alle spalle processi estrattivi intollerantemente pesanti e insostenibili dal punto di vista sia ambientale sia sociale; ebbene, che cosa ci dice questo “disallineamento” quanto al pacifico rapporto di alleanza tra formazione e economia?
Possiamo ancora affermare che nel campo della professionalizzazione questo rapporto debba andare da sé? Possiamo ancora pensare, lo dico un po’ brutalmente, a una formazione professionale acriticamente orientata ai sacrosanti bisogni di una economia avvinghiata alle dinamiche umorali e autoreferenziali di un mercato che si percepisce come una variante desacralizzata dell’Assoluto, con la sua indiscutibile rilevanza e incidenza su tutto l’insieme sociale? Per essere diretti e tagliare corto: di quale formazione professionale abbiamo bisogno oggi, per sostenere quale modello di economia e per affermare quale idea di mercato?
Che la formazione professionale debba continuare a essere un servizio, nel senso più nobile del termine (come offerta di prestazioni qualificate), non è in discussione. Il punto è: al servizio di chi, di quale progetto di società, di quale idea di cittadinanza, di quale concezione della Natura?
Proviamo a tenere ora sullo sfondo queste domande, per riflettere invece sul tema della critica, visto che se nuove condizioni richiedono sempre nuovi aggiustamenti più o meno radicali, è proprio della critica ciò di cui abbiamo bisogno. Ma anche l’esercizio critico per potersi legittimare deve contare su alcuni presupposti. E non è affatto detto che oggi essi siano ancora dati, come cercherò di argomentare qui di seguito.
L’affermazione a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso di un modello di sviluppo dell’accumulazione di capitale privato dimostratosi col tempo problematico su più versanti (diminuzione del tasso di crescita, aumento dell’indebitamento complessivo, esasperazione delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza) è andato di pari passo con un riorientamento del senso critico, con il suo progressivo scivolamento dalla Società alle singole individualità: ipercritici verso se stessi e verso le performance cui si è insistentemente chiamati, del tutto acritici nei confronti delle dinamiche politico-economiche, dei processi di produzione e ridistribuzione della ricchezza, delle forme e dei modi di riorganizzazione e di reinvenzione del lavoro mediati dalle tecnologie o dipendenti dalla sua affermazione e dal suo sviluppo.
Sappiamo che a partire da un certo momento, l’innovazione tecnologica, nata da uno spirito libertario e anarchico interessato alla disintermediazione istituzionale e alla democratizzazione dell’informazione, è stata polarizzata, cioè ridirezionata, dagli interessi del mercato e di un capitale tanto aggressivo quanto estrattivo (di risorse, informazioni ed energie). Un mercato che nell’accelerazione degli scambi e della trasmissione delle informazioni, nello loro stoccaggio ed elaborazione algoritmica dei dati prodotti dagli utenti, ha trovato una leva straordinaria per la propria affermazione e diffusione a tutti gli ambiti dell’esistenza.
Le nostre vite fanno esperienza di tutto ciò attraverso la percezione dell’accelerazione del tempo. Dire “non ho tempo” significa sperimentare in prima persona questo fenomeno di evaporazione del tempo e di compressione dello spazio: i due fattori che, per come si riorganizzano, sostanziano i regimi di immediatezza nei quali viviamo oggi. Ma significa anche vivere all’interno di una iper-selettiva organizzazione delle priorità.
Ciò che incalza ha sempre la priorità. E ciò che incalza è perlopiù dell’ordine della congiuntura in cui ci troviamo: la forma di volta in volta assunta dalla nostra contingenza.
Lo spazio della riflessione critica appartiene invece ad un altro ordine dell’esperienza. Azzeramento del tempo e compressione dello spazio fanno della congiuntura l’unico orizzonte che ci interpella. Per questo la critica non trova più autentici margini di manovra, cioè di esercizio. Più che di riflessione abbiamo bisogno di azione e soluzioni per poter stare a giorno. È l’uomo della risposta che prende il sopravvento sull’uomo della domanda.
Qui la seconda e la terza parte
Fabio Merlini è direttore della Scuola universitaria federale per la formazione professionale (SUFFP)
In continuo arretramento nell’Europa dell’Est
Di fronte all’”enigma circondato da mistero” della politica russa le democrazie occidentali non sembrano certo in buona salute, a partire da Londra