Secondo Diario della crisi (seconda parte)
Verso una nuova politica industriale?
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Verso una nuova politica industriale?
• – Christian Marazzi
Privati degli aiuti, vittime di linciaggi e costretti a pagare gli spostamenti che per i turchi sono gratis. La denuncia di ong e sindacati: picchiati da gang nazionaliste ed esclusi dai soccorsi
• – Redazione
Il discorso di dimissioni della premier scozzese Nicola Sturgeon. Un grande esempio di concezione della politica e della sua dimensione di “servizio del Paese”
• – Redazione
Grazie a un arzigogolo da azzeccagarbugli, Berlusca Pascià assolto con tutte le sue olgettine per insussistenza di reato
• – Franco Cavani
Nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale
• – Christian Marazzi
Dick Marty rivela in un nuovo libro uscito in francese i meccanismi serbi di un "piano folle". Ancora oggi teme per la sua vita, ma la minaccia potrebbe provenire da estremisti di lingua albanese
• – Redazione
Intervista al noto folosofo sloveno Slavoj Žižek pubblicata dal sito indipendente russo Meduza
• – Redazione
Libero Casagrande appartiene a quelle figure umane e culturali che ci hanno consegnato, insieme all’amicizia, una responsabilità
• – Fabio Pusterla
Nel nome dello “spirito imprenditoriale”, quello che domina la narrazione economica e politica e che ancora si invoca come soluzione di tutti i mali
• – Lelio Demichelis
Lo sostengono 1500 esperti di tecnologia e informatica in una lettera al Congresso USA
• – Redazione
È nel contesto di ridefinizione delle nuove strategie energetiche e monetarie che va interpretato il progetto Inflation reduction act (Ira), approvato dai due rami del Congresso e firmato da Biden lo scorso 16 agosto. Si tratta di misure programmate soprattutto nel campo delle sovvenzioni green. Su un budget totale di 738 miliardi di dollari, ben 391 sono destinati ai settori dell’energia e all’ambiente. Più precisamente: 128 miliardi per l’energia rinnovabile e stoccaggio di energia di rete; 37 per la produzione tecnologicamente avanzata di energia; 32 per lo sviluppo delle economie rurali; 30 per l’energia nucleare; 22 per l’approvvigionamento di energia per consumi domestici; 14 per l’efficienza energetica domestica; 13 ad incentivi per i veicoli elettrici. E poi ancora: soldi per la decarbonizzazione di scuolabus, camion della spazzatura, flotte di pubbliche amministrazioni e acquisti a debito di energia elettrica da parte di cooperative rurali.
“Un aspetto che irrita gli europei – scrive Alessandro De Nicola su la Repubblica A&F (16 gennaio 2023) – è lo strisciante protezionismo insito nella disposizione. Infatti, per ottenere le agevolazioni per le auto elettriche la batteria del motore deve essere fabbricata con minerali e componenti prevalentemente estratti o prodotti negli USA o in un Paese con il quale c’è un accordo di libero scambio (come il Canada o il Messico). Naturalmente ciò rischia di tagliar fuori molti modelli europei o di alzarne i prezzi in modo irragionevole”. Se l’Europa volesse contrastare l’iniziativa dell’amministrazione Biden con un “vaste programme” di politica industriale per rafforzare le imprese europee e accelerare la transizione energetica, dovrebbe derogare alla normativa dei divieti di aiuti di Stato, “da sempre architrave del mercato unico continentale e delle politiche di concorrenza”.
Resistenze liberiste a parte (in particolare quelle del ministro delle finanze tedesco, il liberale Lindner), è un fatto però che nel 2020 la Commissione europea decise di adottare un approccio meno rigido per salvare i settori colpiti dalla recessione causata dal Covid. Il problema è che questi sussidi europei approfondiscono, invece di attenuare, le disparità tra paesi-membri. Ad esempio, dei 540 miliardi di euro autorizzati da Bruxelles nel 2022, il 50% sono tedeschi e il 30% francesi. L’Italia, schiacciata sotto il peso del debito, rappresenta solo il 4,7% delle erogazioni. Recentemente, la Spd ha proposto un maggior indebitamento della Ue per sostenere l’industria autoctona, di cui i tedeschi e i francesi beneficerebbero in misura molto superiore agli altri paesi-membri. Come scrive Andrea Bonanni sulla stessa pagina de la Repubblica, “Mentre Bruxelles era riuscita, con il Recovery fund, a dare una risposta coesa all’emergenza economica provocata dalla pandemia di Covid, l’emergenza energetica innescata dalla guerra ha visto ogni Paese correre ai ripari per conto proprio (…). Il rischio che la disparità tra gli aiuti di Stato forniti dalle capitali finisca per distruggere il mercato unico è reale”.
In questa “guerra dei sussidi”, che va oltre il campo energetico per estendersi ai semiconduttori, l’Europa rischia di essere schiacciata, oltre che dalle sue contraddizioni interne, in una competizione tra sistemi-paese con maggiori propensioni dirigiste. Fabrizio Onida, su Il Sole 24 Ore (15 gennaio 2023), ricorda la storia della Silicon Valley, in cui il ruolo del governo federale non è stato tanto l’acquisto di chips e dispositivi a spese dello Stato, quanto l’incentivo concreto ai protagonisti del mercato a esplorare nuove strade, spingere avanti la frontiera scientifica e tecnologica, “operando in un certo senso come il primo potente venture capitalist della Silicon Valley divenuta il centro di una vasta supply chain che attraversa i cinque continenti”. È sulla ridefinizione materiale delle coordinate geopolitiche che la politica industriale sta riacquistando legittimità e pertinenza, un segno della crisi del modello economico liberista alla base della globalizzazione degli ultimi trent’anni.
Attorno a queste questioni, guardando alla fine del Next Generation EU di 750 miliardi di euro e alla necessità di accompagnarlo con maggiori investimenti (“non solo da parte del settore privato, ma anche da parte dei governi nazionali”, ha detto la Lagarde), all’interno della BCE vi sono due posizioni: quella di Fabio Panetta, membro dell’esecutivo, secondo cui “il nuovo ordine mondiale significa che le economie europee non possono più fare affidamento sulla domanda estera come ‘aggiustatore di ultima istanza’”, per cui è necessario un modello più equilibrato, con un ruolo maggiore della domanda interna e degli investimenti pubblici per rafforzare la base di capitale nazionale.
L’altra posizione è quella di François Villeroy de Galhau e Joachim Nagel, presidenti della Banca di Francia e della Bundesbank, che in un articolo comune hanno scritto: “La trasformazione digitale e verde delle nostre economie, l’invecchiamento delle nostre società (…) richiederanno investimenti massicci, che comportano principalmente finanziamenti privati”. L”autonomia strategica dell’Europa, secondo loro, dipende dalla capacità concorrenziale del mercato dei capitali privati. “…l’approvazione da parte della Corte costituzionale tedesca del MES, il paracadute condizionale dell’Unione, mette a punto un pezzo della struttura europea necessaria alla creazione dell’Unione dei mercati dei capitali. Ora la parola passa a Roma, l’unica capitale a non averlo ancora approvato”.
Durante le festività natalizie, tra il 21 e il 31 dicembre, la Southwest Airlines, la più grande compagnia low-cost statunitense, ha bloccato a terra migliaia di passeggeri con la cancellazione di quasi tutti i voli. La stessa cosa è accaduta all’aeroporto di Tijuana, con la cancellazione dei voli della Volaris, la compagnia low-cost messicana. Il caos infernale vissuto dai passengeri a causa del meltdown delle compagnie aeree è stato attribuito al cattivo tempo e a sistemi informatici di programmazione del personale datati e del tutto inadeguati a far fronte a situazioni emergenziali. Secondo il Financial Times, i problemi delle due compagnie aeree riflettono quelli dell’industria aeronautica in generale, e possono essere estesi all’intero modello aziendale liberista (efficiency model corporate management) che ha dominato negli ultimi 40 anni.
In crisi è infatti il modello dello shareholder value, la priorità data agli azionisti con la distribuzione di dividendi crescenti realizzati con il riacquisto delle azioni proprie (share buyback) a scapito degli investimenti in sistemi tecnologici aggiornati e di miglioramenti delle condizioni di lavoro. Normalmente, Wall Street premia le società che riducono il personale (downsizing) e distribuiscono profitti agli investitori, piuttosto che investirli in capitale strumentale, che rende solo nel lungo periodo. Durante la pandemia, i sussidii alle compagnie sono stati vincolati alla proibizione del buyback e della distribuzione dei dividendi, come pure al licenziamento del personale. Non appena, in settembre, gli aiuti sono stati sospesi, ci si è affrettati a ritornare al modello pre-pandemico (di fatto, alla logica della finanziarizzazione aziendale, come nel caso della General Electric, che da tempo ha trasformato l’industria manifatturiera in una istituzione finanziaria too-big-to-fail), e questo malgrado i sindacati avessero chiesto aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro.
Certo, questo modello ha permesso di abbassare i prezzi dopo che le compagnie aeree sono state deregolamentate a partire dagli anni ’70. Ma questo tipo di gestione aziendale è stato all’origine dell’aumento della concentrazione del capitale (4 airlines posseggono l’80% del settore aeronautico americano), dell’esportazione di posti di lavoro verso paesi meno regolamentati come il Messico, El Salvador, la Cina, della compressione dei salari e dell’aumento del carico di lavoro.
La Grande dimissione si spiega alla luce del fallimento dell’“efficiency model”, il modello della produzione snella focalizzato sulla contabilità finanziaria dei centri costo e la svalorizzazione del lavoro. È un esodo dal Grande logoramento.
D’altra parte, i colossi statunitensi del digitale hanno annunciato tagli di decine di migliaia di posti di lavoro. Secondo i dati raccolti da Layoffs.fyi, oltre 214 mila persone sono state licenziate dall’inizio del 2022 nel settore tecnologico. Ha iniziato Twitter con il taglio più grosso voluto da Musk: 50% dei dipendenti, 3.700 persone (di cui una parte significativa si è dimessa volontariamente). Poi Meta, la società madre di Facebook, Instagram e WhatsApp, ha annunciato lo scorso novembre la perdita di 11.000 posti di lavoro (13% del totale della forza-lavoro). Salesforce, il primo gruppo di computing cloud, ha avviato una procedura di licenziamento per 8.000 dipendenti. Microsoft ne ha tagliati 10.000 (il 5% dei 221.000 dipendenti), Snap 1.200 (20%), Stripe 1.100 (14%). Amazon “solo” 18.000, che rappresentano l’1% del milione e mezzo dei suoi dipendenti.
Questo nel 2022. A inizio 2023, Spotify, il colosso dello streaming musicale, ha annunciato il taglio del 6% dei suoi circa 9.800 dipendenti. Poco dopo, Alphabeth, la holding di Google ha annunciato il taglio di 12 mila dipendenti (ca. Il 6%). IBM taglierà 3.900 posti di lavoro (1%). SAP, la società tedesca di software, prevede di cancellare 3.000 impieghi (2,5% della forza lavoro). PayPal, la società dei pagamenti online, dopo i tagli dello scorso anno, ha in programma di ridurre di 2.000 posti di lavoro, pari a circa il 7% della forza lavoro totale (a causa di uno “scenario macroeconomico difficile”).
Secondo gli analisti, se durante la crisi pandemica le assunzioni (… e i valori borsistici) sono cresciute enormemente (+ 53% per Microsoft, + 57% per Alphabet, +100% per Amazon e 94% per Meta) per rispondere alla domanda di “consumo digitale”, il calo delle entrate pubblicitarie, la guerra in Ucraina e l’inflazione hanno destabilizzato il settore. Solo Apple, che durante la pandemia aveva aumentato il personale del 20%, non sembra per ora intenzionata a licenziare, perlomeno a questi livelli.
Anche nel settore digitale, come in quello aeronautico e in altri settori (commercio, ristorazione, sanità), è in gioco la tenuta di un modello di gestione aziendale basato sulla produzione snella, il just in time, la flessibilizzazione della forza lavoro e l’outsourcing. Nel settore tecnologico, alla crisi del modello di management aziendale, si aggiungono due altri fattori: le misure anti-trust (bipartisan), come quella appena annunciata dal dipartimento di giustizia federale contro Google e, forse soprattutto, “una crescente indifferenza sociale alle pratiche del capitalismo della sorveglianza”. A metà gennaio, il distretto di Seattle ha presentato una querela contro TikTok, Facebook, Instagram, Snapchat e Youtube perché questi social “ledono la salute mentale dei ragazzi (…) L’assalto coordinato alle menti vulnerabili dei giovani ha prodotto un’emergenza di salute mentale”, caratterizzata da tassi esplosivi di “depressione, ansia, ed ideazione suicide” a cui si trovano a dover far fronte amministratori ed insegnanti.Tutti gli ingredienti del paradigma postfordista degli ultimi decenni sembrano collassare, sia sul piano della produzione che su quello della riproduzione di valore sociale.
Articolo pubblicato anche dai siti “Effimera.org”e “Machina”
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