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Naufragi

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Ci ha teso la mano. A noi tutti il compito di esserne degni
Naufragi

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Naufragi

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Sprofondo verde, e miracolo a Basilea Campagna (per il Partito evangelico)
Naufragi

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Secondo Diario della crisi (prima parte)
Naufragi

Secondo Diario della crisi (prima parte)

Nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale


Christian Marazzi
Christian Marazzi
Secondo Diario della crisi (prima parte)
• 15 Febbraio 2023 – Christian Marazzi

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

È dal 1945 che l’alleanza geopolitica tra USA e Arabia Saudita ha garantito agli Stati Uniti sicurezza militare nel Medio oriente e, soprattutto, petrolio ancorato al dollaro. Quella alleanza diede inizio al regime del petrodollaro. Nel 1974, quando un gruppo di paesi arabi impose l’embargo sul petrolio come rappresaglia per il sostegno statunitense a Israele nella guerra del Kippur, Richard Nixon garantì di nuovo armi e un accesso preferenziale ai titoli del Tesoro americani, ottenendo in cambio che l’Arabia Saudita si impegnasse a indicizzare tutte le vendite di petrolio in dollari. 

Nel 2003, tra le accuse rivolte a Saddam Hussein, ci fu anche quella di aver cominciato a vendere petrolio in altre valute. Sappiamo come è andata a finire. In ogni caso, è qui che si incomincia a parlare di de-dollarizzazione. Dal 2018 la Russia ha iniziato ad affrancarsi dal dollaro, regolando le forniture di petrolio in euro. Per questo motivo la prima sanzione contro la Russia è stato il congelamento di una parte delle riserve valutarie della Banca centrale russa. Questo precedente di “militarizzazione” (weaponisation) delle riserve valutarie in dollari fa intravedere un cambio di direzione del sistema monetario e energetico internazionale. Il 2023 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui prende forma un nuovo ordine energetico mondiale tra Cina e Medio Oriente, con la nascita del regime del petroyuan. 

Mentre già da tempo la Cina sta acquistando nella sua propria valuta sempre più petrolio e gas naturale liquefatto e altre materie prime (come peraltro l’India le paga in rupie o gli Emirati arabi in dirham) da Iran, Venezuela, Russia e parti dell’Africa, il meeting dello scorso dicembre tra Xi Jinping, sauditi e i leader del Gulf Co-operation Council (GCC, composto da Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Saudi Arabia, e United Arab Emirates) segna, secondo l’analista Zoltan Pozsar di Credit Suisse, l’inizio di una fase in cui la Cina vuole riscrivere le regole del mercato energetico globale come parte di un più ampio disegno di de-dollarizzazione dei paesi del cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e di altre parti del mondo. Non si tratta solo di un aumento delle importazioni di materie prime energetiche pagate in renminbi (peraltro a prezzi fortemente ribassati), ma di una cooperazione a tutto campo con i paesi del GCC (esplorazione e produzione congiunte, investimenti in raffinerie e infrastrutture, prodotti chimici e pastiche, il tutto pagato in renminbi sul Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange). E questo entro il 2025. 

Il mercato del petrolio è dominato da paesi che hanno più cose in comune con la Cina che con gli Stati Uniti (almeno in termini delle rispettive politiche economiche), ma questo non significa ancora che si assisterà, almeno nel breve periodo, ad una diminuzione significativa del peso del dollaro come valuta-chiave del sistema monetario e finanziario mondiale. Storicamente, affinché una potenza economica possa imporre la sua moneta al resto del mondo come valuta di riserva (o divisa-chiave), è necessario che, oltre ad essere una potenza militare, sia strutturalmente indebitata, sia verso l’esterno che al suo interno. 

Pagando in dollari le importazioni dal resto del mondo, si costringe nel medesimo tempo i paesi esportatori a reinvestire gli stessi dollari sul debito pubblico statunitense o a usarli per pagare le importazioni di petrolio. Questo circuito determina forzatamente la “fiducia” nella valuta americana, di fatto la sua egemonia, il suo “privilegio esorbitante”, come lo chiamò Valéry Giscard d’Estaing negli anni ’60. “Il dollaro è la nostra valuta ma un vostro problema”: in questa esternazione del Segretario al Tesoro John Connally, pronunciata poco dopo la dichiarazione d’inconvertibilità in oro della moneta americana nell’agosto del 1971, è racchiusa l’intera storia del sistema monetario internazionale degli ultimi settant’anni. 

La Cina, che si trova strutturalmente in una situazione diversa da quella americana (basti pensare alla bilancia commerciale in forte attivo), ha offerto una sorta di rete di sicurezza finanziaria a coloro che utilizzano il renminbi, rendendolo convertibile in oro sul mercato di Shanghai e di Hong Kong. L’aumento delle riserve nazionali cinesi in oro dello scorso anno si spiega infatti come fuga dalla ‘tirannia del dollaro’ e come strategia per bypassare le sanzioni americane e europee contro la Russia. Ironia della storia: gli Stati Uniti riuscirono a imporsi a Bretton Woods contro il piano di Keynes (1944) agganciando il dollaro all’oro (fissando la parità a 35 dollari l’oncia), e lo poterono fare perché tra le due guerre mondiali avevano accumulato due terzi di tutto l’oro monetato mondiale. Non che l’oro sia mai stato veramente la base materiale per l’emissione di dollari, anzi!, ma è così che il nascente sistema monetario internazionale permise ad una valuta nazionale di funzionare contemporaneamente da moneta internazionale, una asimmetria che Keynes voleva assolutamente evitare con il Bancor, vera e propria moneta sovranazionale. Vedremo se l’oro permetterà al renminbi di diventare a sua volta una divisa-chiave internazionale.

Sarà però lo sviluppo delle monete digitali delle banche centrali (CBDC, central bank digital currencies) che permetterà la vera e propria internazionalizzazione del renminbi.  Attualmente, il sistema monetario basato sul dollaro poggia sui bilanci delle banche commerciali occidentali. Usare il medesimo network è dunque rischioso per la Cina (specie dopo il precedente delle sanzioni contro la Russia), quindi è necessario costruire un altro circuito disancorato da quello della valuta americana. È per questo che vi è la corsa a digitalizzare le monete della banche centrali (secondo il Fmi, oltre la metà delle banche centrali del mondo è impegnata nella ricerca/sviluppo/implementazione delle monete digitali), appunto per connettere tra di loro le banche centrali esterne all’area di influenza geopolitica e geoeconomica americana. 

Comunque, per il momento sono anche altre le implicazioni economiche e finanziarie di questa strategia energetica. La Cina vuole adescare imprese occidentali con la prospettiva del petrolio a basso prezzo. La tedesca BASF, ad esempio, ha infatti ridotto le sue operazioni chimiche a Ludwigshafen per spostarle a Zhanjiang. Un processo analogo, ma di segno opposto, riguarda imprese europee che hanno aumentato i loro posti di lavoro negli USA a causa dei più bassi costi energetici. La guerra militare-energetica in corso sta indubbiamente ridefinendo la divisione internazionale del lavoro, nel senso di una accentuazione dei processi di regionalizzazione e localizzazione della produzione di merci. 

Le politiche petrolifere comportano sempre rischi finanziari. A partire dalla fine degli anni ’70 in poi, il riciclo dei petrodollari da parte dei paesi produttori/esportatori in paesi emergenti come il Messico, il Brasile, l’Argentina, lo Zaire, la Turchia e altri ancora, attraverso le banche commerciali americane (attraverso il mercato degli eurodollari), pose le basi per una serie di crisi del debito sovrano in questi paesi; diede impulso alla finanziarizzazione con la creazione di “innovazioni” speculative come la cartolarizzazione dei titoli; incrementò l’economia del debito interno degli Stati Uniti con l’afflusso di capitali nelle banche commerciali statunitensi. Ci si chiede se questi processi possano oggi ripresentarsi, ma rovesciati. Già adesso, gli enormi surplus delle bilance correnti di Cina, Russia e Arabia saudita non sono utilizzati, come da tradizione, per acquistare Buoni del Tesoro statunitensi, che agli attuali tassi d’inflazione offrono rendimenti negativi. Sono invece usati per acquistare oro (come ha fatto recentemente la Cina), materie prime (come l’Arabia saudita, che li investe in nuove industrie estrattive) o per interessi geopolitici (aiuti a paesi alleati, come la Turchia, l’Egitto o il Pakistan, come nel caso della Russia). Per gli Stati Uniti, col debito pubblico che si ritrovano, oltretutto un debito che in gennaio ha raggiunto il suo tetto e necessita quindi dell’approvazione del Congresso per esser aumentato, le cose si complicano non poco.  C’è da chiedersi, ad esempio, come gli Stati Uniti possano continuare a finanziare ai ritmi attuali la spesa per armamenti da destinare all’Ucraina. 

Non è tanto l’entità del debito federale che preoccupa (si veda Paul Krugman, “Does America Have Too Much Debt”, in New York Times, 24 gennaio, 2023; vedi anche La soutenabilité des dettes publiques, Revue d’économie financière, nr. 146, 2022), ma la sua sostenibilità politico-strategica. Per evitare il default federale, occorre un accordo bipartisan per spostare il tetto del debito verso l’alto (o, idealmente, per eliminarlo), il che comporta un periodo di negoziazione di qualche mese (fino a giugno, sembrerebbe), periodo durante il quale tra politiche anti-inflazionistiche e carenza di liquidità sul mercato dei Buoni del Tesoro americani, il costo del debito pubblico rischia di  schizzare pericolosamente verso l’alto. 

In uno scenario di questo tipo, particolarmente destabilizzante per i mercati finanziari, la Banca centrale americana sarebbe (inevitabilmente) costretta ad intervenire acquistando i Treasury bonds, contraddicendo così platealmente la politica monetaria restrittiva che ha perseguito durante tutto il 2022 nel nome della lotta all’inflazione. Insomma, dal quantitative tightening si ritornerebbe al quantitative easing, riproducendo le condizioni per quella spirale debitoria che ha caratterizzato tutto il periodo che ha fatto seguito alla grande crisi finanziaria del 2007-08 e alla crisi pandemica. Tra il 2008 e il 2019, il debito federale statunitense detenuto dal pubblico è aumentato del 500%, il debito privato non-finanziario del 90% e il debito dei consumatori, escluso quello ipotecario, è aumentato del 30%; in seguito, dal 2020 in poi, cioè durante la crisi pandemica, queste categorie di debito sono aumentate rispettivamente di un altro 30, 15 e 10%. (Gillian Tett, “The Fed finds itself in a nasty hole”, in Financial Times, 27 gennaio 2023).

Se il petroyuan dovesse decollare, la tanto ventilata de-dollarizzazione potrebbe davvero materializzarsi. Di fatto, il processo è già avviato. Come ha scritto l’economista Dominique Plihon, “stiamo assistendo a un doppio movimento di regionalizzazione e di multipolarizzazione del sistema monetario internazionale che potrebbe portare a una ‘guerra delle valute’”.

Articolo pubblicato anche dai siti “Effimera.org”e “Machina”
Qui tutti i Diari della crisi






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