L’estrema destra nell’aria italiana
Meloni si presenta ad Atreju come la leader non solo di un partito ma di una comunità che resta se stessa difendendo il suo passato, senza alcuna revisione. E ipotecando il futuro
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Meloni si presenta ad Atreju come la leader non solo di un partito ma di una comunità che resta se stessa difendendo il suo passato, senza alcuna revisione. E ipotecando il futuro
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Meloni si presenta ad Atreju come la leader non solo di un partito ma di una comunità che resta se stessa difendendo il suo passato, senza alcuna revisione. E ipotecando il futuro
Conquistato il governo, Giorgia Meloni ha celebrato alla festa di Atreju il suo compleanno col potere, presentandosi come la leader non solo di un partito ma di una comunità che resta se stessa difendendo il suo passato senza alcuna revisione, e ipotecando il futuro: «Io non scappo e non mollo. Non lasciatemi sola, finché ci siete voi, il popolo italiano, non ci sarà verso di liberarsi di me».
Cercando un epos d’occasione in Tolkien, la presidente del Consiglio ha sollecitato più volte la nuova «compagnia» della destra a manifestarsi, sostenendo non soltanto la sua azione di governo, ma l’ambizione di cambiare l’Italia e l’Europa.
Con i dignitari dei partiti di governo in platea, la premier ha così compiuto la sua metamorfosi pubblica da underdog a capo della destra italiana, ruolo vacante dopo l’abdicazione e la scomparsa del vero fondatore di quel mondo, Silvio Berlusconi.
Non ci sono elementi teorici che illustrano il disegno di questa destra estrema, nel discorso di Meloni: come se non ci fosse bisogno di definirla, perché la figura della leader e il suo percorso biografico la riassumono e la spiegano da soli. In realtà l’imbarazzo identitario delle origini consiglia oggi di saltare il rendiconto del post fascismo e del neofascismo, e di cominciare “questa storia infinita” dall’età berlusconiana, quando il Cavaliere per convenienza elettorale e per necessità di formare un campo ha tagliato i nodi della destra italiana, senza scioglierli.
Meloni oggi accetta questa ambiguità e la prolunga, anche se ad Atreju per la prima volta ha reso omaggio alla “civiltà occidentale”. La destra italiana del 2023, dunque, si definisce ancora e sempre per differenza dalla sinistra, in una contrapposizione-ossessione continua, che porta la premier a parlare al Paese (anzi, alla “nazione”) come il capo di una parte, più che come la guida del governo.
Naturalmente ci sono i risultati dell’esecutivo nel primo anno, che Meloni interpreta tutti in positivo, dal calo dello spread agli adempimenti per la quarta rata del Pnrr, alla crescita dell’occupazione, al record dell’impiego femminile: ma sono tutti rivendicati in polemica con la sinistra, come se il governo facesse opposizione alla sua minoranza parlamentare, accusata di politiche irresponsabili e scelte sbagliate che pesano ancora oggi.
Una sinistra che secondo Meloni parla di salario minimo per aiutare le grandi concentrazioni industriali, dopo aver lasciato con il Superbonus «un buco equivalente a quanto lo Stato spende in un anno per la sanità», mentre oggi «continua a sperare in un crollo economico pur di tornare al potere». Qui la premier sembra preoccupata di rassicurare se stessa: «Non saremo un fuoco di paglia», promette. «Non siamo arrivati al governo per caso», assicura.
Anzi, evoca nella società un’onda che l’ha spinta a palazzo Chigi: «C’era un’Italia umiliata dalla sinistra e stanca di essere scavalcata da chi passava avanti non per merito, ma per giri di amicizia, stufa di subire angherie da uno Stato forte coi deboli e abituato a sperperare il denaro pubblico».
Un registro populista, più da leader di opposizione che di governo. Ma proprio grazie a questa dimensione anfibia, con un piede dentro lo Stato e uno fuori, Meloni cerca di intercettare il malcontento nella piccola borghesia, il risentimento del proletariato, addirittura il ribellismo delle élite, per costruirsi una base sociale di riferimento che veda in lei l’interruttore finale del sistema esecutivo, ma anche la scossa continua dell’antipolitica permanente.
È la scommessa difficilissima di chi prova a fare opposizione al sistema dai banchi del governo: un ircocervo che può nascere solo in questi anni del caos, quando la spinta della crisi emargina una fetta di cittadini che si sentono esclusi, spiaggiati, esposti, delusi non solo dalla politica, ma anche dalla democrazia.
Qui Meloni gioca la sua carta più insidiosa: la proposta di un’alleanza tra la nuova destra e il mondo del lavoro, rovesciando le tradizioni e le eredità della cultura politica italiana degli ultimi due secoli. La cornice è quella di «un’Italia che non accetta di spegnersi, di chinare il capo, ma ridiventa consapevole del suo peso e ha voglia di stupire il mondo».
L’appello è ai lavoratori e agli imprenditori, ai protagonisti del made in Italy, perché il modello «non sono gli influencer che si mostrano con una borsa in mano, ma coloro che inventano, disegnano e producono quella borsa, sapendo che noi italiani siamo più bravi, sappiamo fare meglio».
A tutto questo mondo, Meloni assicura che il governo sarà al suo fianco, costruendo un paesaggio securitario attorno alla difesa della proprietà privata, che nel mondo immaginario della destra oggi sarebbe minacciata in Italia.
Chi è minacciato davvero dalla criminalità mafiosa, invece, può essere attaccato dal palco, come Roberto Saviano accusato (senza mai fare il suo nome) di raccontare le storie dei camorristi «perché fanno vendere, producono serie tv, regalano celebrità, ricchezza e magari un pulpito da New York da cui dare lezioni di legalità agli italiani, sempre s’intende a pagamento». Come se indagare sui segreti del crimine mafioso si rivelasse un peccato, e il successo tra i lettori fosse una colpa.
Più che la definizione di un progetto, è l’evocazione di un clima, quest’atmosfera estrema di destra realizzata che resta nell’aria italiana dopo il discorso della premier.
Nell’immagine: Giorgia Meloni
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