Orban, l’eroe dei sovranisti globali che tiene in scacco l’Europa
In tredici anni il premier magiaro amico di Putin ha trasformato l’Ungheria in un’autarchia: controlla tribunali, media e industrie mentre tratta con Bruxelles tra minacce e promesse
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In tredici anni il premier magiaro amico di Putin ha trasformato l’Ungheria in un’autarchia: controlla tribunali, media e industrie mentre tratta con Bruxelles tra minacce e promesse
• – Redazione
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Poco più di dieci anni fa, in un brutto bar della periferia di Budapest, un vecchio amico di Orban, in seguito diventato un «traditore» e cancellato per sempre dal cerchio magico del potere, raccontava quanto il neo premier ungherese fosse intelligente, determinato e paziente, una «macchina alimentata dall’ambizione che nessuno riuscirà a fermare, perché lui gioca con le sue regole», e soprattutto perché «nessuno lo sta prendendo sul serio». Allora, pochi in Europa pronosticavano che l’ascesa di Orban sarebbe stata verticale e inarrestabile, così implacabile da arrivare a riscrivere le regole della politica ungherese e a diventare un modello per le destre globali. Eppure era già tutto scritto, e detto. Perché se c’è una cosa che a Orban si deve riconoscere – oltre all’innegabile abilità politica – è che non ha mai nascosto le sue strategie, per quanto spregiudicate e ciniche siano.
Fautore dell’ormai notissima teoria della «democrazia illiberale» che anno dopo anno ha trasformato l’Ungheria in autocrazia, Orban ha più volte spiegato con condiscendenza ai «burocrati di Bruxelles» come il gioco che fa con l’Ue non sia che una «danza del pavone»: «Tre passi avanti, uno indietro, poi allarga e agita bene le piume colorate». Esattamente la stessa danza usata ieri: mettiti di traverso, minaccia, fai la voce grossa, esci dalla stanza, concedi un’apertura, poi confondi le acque e torna all’attacco. Agita bene le piume colorate. Così Orban stringe la mano a Putin, critica le sanzioni contro la Russia, ma poi le vota. Si oppone al sostegno all’Ucraina, ma strategicamente scompare al momento del voto. Tuona contro il blocco dei Fondi di coesione, congelati per le profonde crepe nello Stato di diritto, ma riesce a forzare i pagamenti con i suoi veti e le blandizie a Bruxelles.
Dal suo secondo mandato, nel 2010, il leader di uno Stato mitteleuropeo di 10 milioni di anime con pochissime risorse naturali, è riuscito a imporre un modello manipolando a suo favore le regole del gioco. Oggi la magistratura ungherese è controllata dal potere esecutivo (cioè da lui), non esistono più media indipendenti, con i grandi gruppi editoriali in mano a imprenditori «amici» e un’Authority che controlla che le notizie non siano ostili al governo. «Se non vuoi dipendere da come ti descrivono i giornali, allora crea i tuoi», dice. Gli spazi di espressione della comunità Lgbtq+ sono azzerati, il mondo accademico stretto all’angolo, le leggi elettorali modificate a suo favore, l’economia e le imprese nelle mani di amici, famigliari e sodali, che si riempiono le tasche svuotando quelle degli ungheresi. Con metodo e pazienza Orban ha licenziato i «giudici ostili», ha tagliato i fondi alle istituzioni religiose che non lo sostenevano (tra cui quella del pastore Gabor Ivanyi Peter Kohalmi, che lo ha sposato e ha battezzato i suoi figli) e ha messo sotto inchiesta fiscale e ambientale le industrie in mano ai suoi oppositori, come la Nitrogenmuvek.
In tutto questo, l’ex giovane idealista che contribuì a far crollare il Muro, ha innalzato barriere di filo spinato ai suoi confini, per fermare i migranti, portatori di «malattie, terrorismo» e rei di voler sostituire l’islamismo ai «profondi valori cristiani dell’Ungheria», lui, che in una chiesa non si è mai visto.
Le contraddizioni di Orban non lo hanno mai fermato, lo hanno anzi tenuto a battesimo. Lui, che sul comodino dice di avere una Bibbia, che guarda ripetutamente C’era una volta il West di Sergio Leone, perché nel film «è chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi», aveva iniziato – capelli lungi, barba e camicie a fiorellini – da giovane liberale profondamente anti-comunista. Nel marzo 1988 con i suoi compagni di università – molti dei quali sarebbero stati ricompensati con incarichi di alto livello nei suoi governi – fonda l’Alleanza dei Giovani Democratici, o Fidesz, un movimento di orientamento liberale. «I comunisti ci hanno portato via il futuro», dichiara nel suo primo discorso. All’epoca, era un democratico e sostenitore del libero mercato sfacciatamente filo-occidentale e, per la maggior parte degli Anni 90, il leader del gruppo Internazionale Liberale dei partiti progressisti. Oggi la sua cifra politica è la difesa intransigente della sovranità nazionale e una trasparente sfiducia nei confronti delle istituzioni europee, mischiata all’odio per i migranti e una dichiarata fedeltà a Vladimir Putin. Il 23 ottobre 2022, dopo l’invasione russa, Orban ha celebrato l’anniversario della rivoluzione ungherese del 1956 spiegando che la vera intenzione dell’insurrezione non era combattere la Russia ma fare la pace con lei.
Nonostante le capriole politiche, Orban – complice un sistema dopato da media silenziati- parla alle classi operaie e contadine, amareggiate dalla stagnazione economica, invocando «valori cristiani» e urlando il suo disprezzo per «la corruzione, il sesso e la violenza» delle società occidentali, non risparmiando ostilità per le «élite liberali», gli intellettuali e gli avidi banchieri.
In un certo senso Orban parla a se stesso. Lo spiega bene il giornalista di origine ungherese Paul Lendvai, nella sua biografia del 2017 Orban: Europe’s New Strongman, che traccia l’origine della sua determinazione in un «profondo senso di inferiorità». Nato nel minuscolo villaggio di Alcsútdoboz nel 1963, cresciuto nell’ultima casa del paese, senz’acqua corrente e con un padre boscaiolo incline alla violenza, apparteneva alla classe media rurale. Studente brillante – studiò per un anno all’Università di Oxford con una borsa di studio pagata (ironicamente) da Soros – «si sentiva tuttavia trattato dagli altri come un provinciale, emarginato dagli intellettuali di sinistra». Il suo senso di inferiorità, scrive Lendvai, lo ha reso particolarmente ostile agli «eurofili cosmopoliti» che dominavano la vita politica ungherese. Un populista ante litteram che sa parlare benissimo alle classi rurali e che ha dato vita a una cifra politica che ora è norma nei partiti conservatori europei e americani. In un altro momento storico Orban sarebbe criticato perché spinge la politica verso l’opportunismo e lontano dai principi, eppure oggi vediamo che la sua via è efficace, e anche tremendamente contagiosa.
Nell’immagine: Viktor Orban (nostro fotomontaggio)
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La soppressione del dibattito libero su Israele e Palestina al quale lei contribuisce sembrerebbe contraddire le sue idee