L’inverno degli scontenti
Le elezioni politiche, in Ticino come in Svizzera, alla prova dei prossimi mesi, economicamente e socialmente pieni di incognite
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Le elezioni politiche, in Ticino come in Svizzera, alla prova dei prossimi mesi, economicamente e socialmente pieni di incognite
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Le elezioni politiche, in Ticino come in Svizzera, alla prova dei prossimi mesi, economicamente e socialmente pieni di incognite
Certo, bisognerà superare l’inverno, con tutti i relativi imprevisti. Non è detto che i disegni strategici dei partiti, che ora scommettono sull’«usato sicuro», troveranno conferma. Le incognite socioeconomiche si stanno infatti moltiplicando. La prima è data da un corpo elettorale sempre più fluttuante e umorale, intimamente insofferente, ossia meno ubbidiente di un tempo alle consegne dei partiti. Il fenomeno della disaffezione è universale e in atto da tempo, anche nelle democrazie di più solida tradizione. L’esercito degli astensionisti cresce ovunque; riconquistarne la fiducia per ricondurlo alle urne è sempre più arduo da parte degli stati maggiori.
Tramontato il fideismo ereditato dal Novecento, il secolo delle ideologie, i partiti hanno puntato sui leader dal profilo muscoloso. Hanno insomma creato dei «partiti personali»: «stiamo assistendo – spiega il politologo Mauro Calise – ad un ritorno del potere patrimoniale e carismatico ai danni di quello legale-razionale sul quale si erano fondate le antiche burocrazie di partito». Il passo successivo è stato quello di trasferire la cultura politica delle principali famiglie politiche nella sfera impalpabile della Rete: è così nato il «partito digitale», radicato non più in una comunità concreta di uomini e donne, ma in piattaforme telematiche poco trasparenti. Le esperienze avviate all’estero non hanno funzionato; o meglio, hanno figliato nuove oligarchie, spesso imperscrutabili e incontrollabili da parte della platea degli iscritti (v. piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle). Fissare uno schermo non è come guardarsi negli occhi.
Ma le insidie maggiori, per la politica organizzata, provengono dalla società, dai suoi mutamenti e dai suoi timori. Tra qualche mese la situazione che oggi fotografiamo sarà molto diversa. Dalla pandemia e dalla siccità, ma soprattutto dall’invasione russa dell’Ucraina, assistiamo ad un generale impoverimento dei ceti medi, l’architrave sociale che finora ha assicurato la stabilità del sistema. È la fascia numericamente più folta, in grado di autosostentarsi senza aiuti statali, ma che ora sta scivolando, rincaro dopo rincaro, verso l’anticamera da cui si intravede la porta della nuova povertà. Il tasso d’inflazione «ufficiale», dato intorno al 3,5%, ha tutta l’aria di una percentuale edulcorata per non alimentare ansie.
Sappiamo dalle scienze sociali che la nozione di «ceto medio» si presta a varie classificazioni e interpretazioni; anche il solo parametro dei redditi (lordi, netti, disponibili) genera confusioni e obiezioni. Purtuttavia, nel caso ticinese, ci pare legittimo includere in questa categoria tutti coloro che sono attivi nel settore pubblico e para-pubblico, dunque funzionari, insegnanti, impiegati, paramedici, la classe dei «creativi» e gli operatori dell’informazione. Insomma «colletti bianchi», il popolo del terziario che non appartiene né all’agricoltura (primario), né all’industria (secondario). Un grande polmone, si badi bene, che non è fondamentale solo come contribuente, ma anche come soggetto civile, come motore di iniziative associative, ricreative, assistenziali, sportive, culturali.
Lo scivolamento di questi ceti, sospinto dall’inflazione, è evidente. «L’esplosione dei prezzi minaccia ora anche il ceto medio», ha titolato il «Tages-Anzeiger» (edizione del 19 settembre). Le recenti proteste dei dipendenti statali circa il loro avvenire pensionistico rappresentano una spia significativa, un primo campanello d’allarme. Sono categorie, quelle suddette, che fino all’altrieri erano considerate privilegiate, garantite, protette, sulle quali il potere poteva contare al momento di elezioni e votazioni. Consenso in cambio dell’impiego sicuro, meglio se «federale». Su questo patto, più o meno tacito, si è retta buona parte della politica ticinese dall’Ottocento ai giorni nostri: un blocco sociale che i movimenti di contestazione degli anni Sessanta e Settanta avevano sì intaccato, ma non disgregato. Nemmeno l’ingresso nell’arena delle donne e successivamente della Lega descamisada avevano ribaltato i tradizionali equilibri.
Ora invece questi ceti minacciano di rompere il blocco sociale e di ritirare la fiducia fin qui assicurata alle formazioni storiche. Detto altrimenti, non sono più disposti, come un tempo, a firmare cambiali in bianco. I prossimi mesi saranno decisivi, dato che il maggior afflusso di voti proviene da questo bacino. Non dai vertici della piramide (i ricchi sono influenti ma poco numerosi), non dallo zoccolo (tra precari e bisognosi il senso civico è generalmente scarso e quindi anche la partecipazione al voto: hanno altri grattacapi). Da ricordare poi che una robusta quota della popolazione attiva non beneficia dei diritti politici, perché straniera o formata da frontalieri (75mila secondo gli ultimi dati).
La partita si giocherà dunque qui, in questo ampia fascia intermedia della piramide sociale. Un tempo docile e fedele alle parole d’ordine, il ceto medio si ritrova oggi scosso e smarrito («verunsichert»), alle prese con un regresso sociale che mai aveva ritenuto possibile né immaginabile. Quale ne sarà lo sbocco elettoral-politico è difficile prevedere. Come detto, molto dipenderà da come si uscirà dall’imminente stagione fredda. Sappiamo che le crisi danno luogo a reazioni differenti, la storia politica del XX secolo insegna per esempio che il crack del ’29 ridiede spazio e fiato alle dittature in Europa ma non negli Stati Uniti di Roosevelt («New Deal»). A proposito del ruolo dei ceti medi sarebbe bene non scordare quanto disse Renzo De Felice nella sua Intervista sul fascismo del 1975: «Il fascismo movimento… è stato in gran parte l’espressione di ceti medi emergenti, cioè di ceti medi che cercano – essendo diventati un fatto sociale – di acquistare partecipazione, acquistare potere politico».
La democrazia elvetica dovrebbe possedere gli anticorpi per resistere all’assalto delle forze populiste e alle tentazioni autoritarie estreme, come già fece negli anni Trenta, pur con qualche cedimento, di fronte al frontismo filonazista. Ma chi ritiene che tutto correrà sui binari prestabiliti da qui alle elezioni del prossimo anno (Cantonali e Federali) temo che dovrà ben presto ricredersi e rivedere i piani.
Scritto per laRegione
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