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Loretta Dalpozzo
Loretta Dalpozzo
Myanmar: le armi mediatiche contro le armi...
• 21 Marzo 2021 – Loretta Dalpozzo
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Da Singapore

Ogni giorno, dal Myanmar giungono notizie ed immagini di civili disarmati brutalmente uccisi dai militari e dalla polizia. Immagini di funerali, di arresti, di giovani in fuga dai proiettili che mirano al petto o alla testa. Video e fotografie spesso rubate dai cittadini che si improvvisano giornalisti, rischiando la vita. Una sofferenza e un coraggio immortalati da chi è vittima e testimone di un paese che sta sprofondando nell’abisso del passato.

Ogni informazione, ogni video postato sui social media conta dal momento che i giornalisti stranieri sono tenuti fuori dal paese con la chiusura dell’aeroporto e quelli locali possono venire arrestati in ogni momento. Almeno 40 di loro sono finiti dietro le sbarre per fare il proprio lavoro. 22 sono stati rilasciati, 10 rimangono in custodia. Molti altri, compresi i miei collaboratori, continuano a sfidare la brutalità del regime per informarci. Non si lasciano intimidire dalle perquisizioni delle redazioni, dalle azioni legali, che si moltiplicano.

La breve ed imperfetta era della libertà di stampa, lanciata dall’ex amministrazione semi-civile nel 2012, come simbolo delle aperture economiche e politiche, è terminata il 17 marzo. Dopo una serie di revoche delle licenze di stampa e di trasmissione, anche The Standard Time ha cessato le sue operazioni, unendosi a The Myanmar Times, The Voice, 7Day News e Eleven. Oggi il Myanmar non ha più una singola testata indipendente.

I media online rimangono l’ultima ancora di salvezza per milioni di cittadini alla disperata ricerca di notizie affidabili. Ogni mattina leggiamo con ansia le informazioni su Twitter per sapere cosa è successo nella notte. Contattiamo i colleghi e conoscenti per sapere se stanno bene, se ci sono stati nuovi morti, nuovi arresti. Da tre giorni però le informazioni sono meno frequenti. Il blocco notturno di internet imposto dalla giunta un mese fa, si è esteso anche alle ore del giorno. Il regime militare ha tagliato l’accesso Wifi pubblico, nel tentativo di recidere quest’ultima connessione con il mondo esterno. Un miraggio dieci anni fa, con il tempo internet è diventato anche strumento di propaganda per l’esercito, tanto che il Generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate, ha il suo sito web.

Oggi i giovani birmani sono abili comunicatori ed informatici, capaci di aggirare i blocchi imposti dalla giunta. Questa è la loro più grande arma. Filmando la scioccante violenza dei militari, raccogliendo le prove dei loro crimini, cercano una reazione forte della comunità internazionale, perché è chiaro che non bastano più le dichiarazioni di condanna, ci vogliono i fatti. Una parte della popolazione pensa e spera che le Nazioni Unite o gli americani verranno a salvarli, altri sono ben coscienti che questa è una battaglia che devono vincere da soli, ma il contatto con il mondo esterno rimane vitale.

Nel 2007 la rivoluzione color zafferano non fu documentata come quella di oggi, ma dal paese uscirono abbastanza informazioni per mettere sotto pressione la giunta militare ed attirare l’attenzione dei governi stranieri. I militari di allora fermarono con la forza settimane di dissenso, ma gli scioperi, le processioni  guidati dai monaci buddisti furono fondamentali e diedero inizio ad un processo di cambiamento.

Per questo la recente presa di posizione della potente associazione di monaci buddisti del Myanmar è significativa.  Se già nelle scorse settimane, centinaia di religiosi si erano uniti alle proteste, solo ieri i Mahana, il Comitato statale della Sangha Maha Nayaka, ha ufficialmente esortato il governo militare a porre fine alla violenza contro i manifestanti e ha accusato una “minoranza armata” di torture ed uccisioni di civili innocenti dal colpo di stato del mese scorso.

L’organizzazione nominata dal governo ha anche affermato che i suoi membri intendono interrompere le attività nei monasteri e nelle scuole buddiste.  La loro azione dà legittimità morale ai manifestanti ed è un vero smacco per l’esercito, che si dice protettore del buddismo.

Il peso dei monaci è più forte di quello della comunità straniera, che l’esercito ha sempre ignorato. Non dimentichiamo che i militari hanno compiuto un colpo di stato quando sul capo dell’esercito pendevano le accuse di genocidio, a dimostrazione che nulla li imbarazza o li ferma, nemmeno le immagini dei cecchini che sparano sulla propria gente, senza ragione.

Eppure se quelle immagini continueranno a raggiungere i nostri schermi, potrebbero imbarazzare gli americani, l’unione europea, e spingerli a fare di più. Perfino la Cina, alleata del regime militare, non è contenta di come le proteste stiano paralizzando l’economia e destabilizzando le sue attività nel paese. Se inizialmente si è rifiutata di approvare una risoluzione di condanna al golpe militare, il 7 marzo si è detta pronta ad impegnarsi con tutte le parti in causa per contribuire a risolvere la crisi in Myanmar.

Dieci anni fa, per i giornalisti stranieri era impossibile filmare liberamente nel paese. Le persone non si avvicinavano alle telecamere, avevano paura di parlare. I miei contatti locali dovevano prendere delle precauzioni per aiutarmi. Oggi come allora non possiamo accedere al paese, ma le persone non hanno più paura di parlare e gli stessi giornalisti locali sono in prima linea, sono la voce di una realtà che nessuno conosce meglio di loro. Ci dimostrano e descrivono il coraggio di chi è pronto a morire per salvare il Paese dall’oscurità.






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