Noa e la pace in Israele: se non ora, quando?
La cantante israeliana è da sempre un’attivista per il dialogo tra i due popoli. Ma oggi ha qualcosa da dire anche agli «amici liberal occidentali: ci siamo sentiti traditi da voi»
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Tel Aviv. Arriva con il sorriso. E già questo, ultimamente, qui in Israele, è una novità. Poi si mette a parlare sorseggiando un caffè e pronuncia parole come «visione, futuro, pace». In un Paese ferito, rabbioso, scioccato, che da quattro mesi vive come se fosse in un unico giorno senza fine – il 7 ottobre 2023 – conversare con Achinoam Nini, in arte Noa, 54 anni, la cantante israeliana più conosciuta al mondo, è come immergersi in una bolla invisibile ai più, in patria e fuori. Quella del mondo liberal, aperto, progressista, impegnato, “pacifista” per riassumere con un’etichetta facile, che negli ultimi trent’anni era diventata una delle facce più amate di questo Paese in Europa: e che dopo il 7 ottobre è scomparsa dai media, travolta dall’attacco di Hamas e dalla successiva offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza. Avvertenza per chi volesse andare avanti: non è la conversazione con un’ingenua questa, e neanche con una sognatrice. Non è un discorso utopistico quello raccolto in una mattina di sole a Tel Aviv che qui proveremo a riassumere: ma il ragionamento di una persona che da quasi trent’anni è impegnata nella causa della convivenza fra israeliani e palestinesi. E che, come tutti nel suo Paese, è uscita dal 7 ottobre scioccata. E in più, come gli altri israeliani che fanno parte della bolla “progressista”, ha dovuto fare i conti con un dolore suppletivo: osservare la visione per cui tanto ha lavorato frantumarsi sotto i colpi di Hamas prima, e sotto le parole d’odio lanciate nei loro confronti dalla destra israeliana più estremista e ultrareligiosa, nel governo e fuori. Da qui, da quei frammenti conficcati nella pelle, Noa e il suo mondo provano a ripartire. Sapendo che già questa parola da sola – “ripartire” – in Israele oggi è una sfida. La cantante e attivista ne ha parlato a dicembre a piazza Habima, nel cuore di Tel Aviv, quando ha parlato a una delle prime manifestazioni di arabi ed ebrei israeliani per chiedere lo stop ai bombardamenti su Gaza.
Noa, non ci giriamo intorno: quattro mesi di guerra, 1.200 morti da una parte, più di 27 mila dall’altra. Come si fa a dire ancora che si può ripartire?
«Non si dice: si fa. Ed è già successo. Si guardi intorno: siamo davanti a un cinema dove fra poco inizierà la proiezione di One day after peace, un film sul perdono e il dialogo fra nemici. Guardi la gente che entra: sono ripartiti. Può dirmi che siamo pochi: io le risponderò che ci siamo e che siamo ovunque. Qui a Tel Aviv, a Jaffa, ad Acco, nelle città beduine, in tutte le realtà miste di Israele. Il fatto che la televisione non parli di noi, perché tutto quello che racconta sono i morti del 7 ottobre e i soldati, non vuol dire che non esistiamo. Siamo ripartiti molto rapidamente dopo il 7 ottobre: abbiamo detto chiaramente che il nostro tempo è subito. Perché senza un accordo, senza una soluzione definitiva fra israeliani e palestinesi la violenza continuerà. Dopo il 7 ottobre ci hanno chiesto, mi hanno chiesto, se finalmente fossi “rinsavita”: da cosa? Dalla mia fede nell’umanità e nel dialogo? Quel giorno, nel sangue, è crollata la mia visione o piuttosto quella arrogante, suprematista, militarista che da anni questo Paese segue? Le dico tutto questo, ma le dico anche un “però”: ed è uno di quelli che pesano».
Quale sarebbe?
«Noi abbiamo reagito. Anche di fronte al dolore immenso che ci siamo trovati davanti, anche di fronte agli insulti di chi ha provato a darci la colpa di quello che era successo. Ma la maniera in cui hanno risposto in Europa e negli Stati Uniti i liberal, i progressisti, quelli che per anni abbiamo considerato come compagni di strada, ci ha scioccato. Ci siamo sentiti abbandonati, traditi, non riconosciuti come vittime: solo perché israeliani. Non c’è il bianco e il nero nella vita: se scegli di stare da una parte, senza guardare l’altra, se squalifichi l’altro, non puoi dire che credi nella pace e nella convivenza. Andare in piazza a urlare “Dal fiume al mare” (slogan delle manifestazioni pro-Palestina, con riferimento a tutto il territorio compreso fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, ndr) senza ricordare il diritto di Israele ad esistere, e ad esistere in questa terra, significa propagandare odio. Esattamente come fanno quelli che vorrebbero cancellare i palestinesi da questa stessa terra».
Però ammetterà che se già prima era difficile parlare di pace e convivenza ora sembra impossibile…
«Non sono d’accordo. È vero che all’inizio il Paese era paralizzato dallo shock e non riusciva a vedere oltre la reazione iniziale. Ma adesso è diverso: il fatto che ci siano ancora tanti ostaggi a Gaza ha creato ostilità contro un governo che non ha fatto abbastanza per tirarli fuori. Ha fatto crollare agli occhi di molti il patto sociale fra lo Stato e i suoi cittadini che sta alla base di questo Paese. E questo in qualche maniera è una cosa che fa essere ottimisti: non c’è nessuno oggi che non capisca che occorre cambiare passo. Lo capiscono gli elettori, che hanno già condannato Netanyahu, e lo capiscono anche gli Stati Uniti, senza il cui sostegno nessun governo israeliano può vivere. Il panorama è destinato a cambiare in tempi rapidi. Quindi vede, si può ancora sperare: lo scenario è mutato in modo drammatico ma è ora che possiamo arrivare ad un accordo. Sarà un giorno felice quello, ma anche triste: per tutte le vite perse inutilmente prima di arrivare a questo risultato».
E la musica, l’arte: come si collocano in questo quadro?
«Io personalmente ho alzato la voce sin dall’inizio contro le scelte del governo, contro questa guerra. L’ho fatto cantando: per gli sfollati, per le famiglie, per le persone del Nova. Ma, di nuovo, provo un dolore che vorrei condividere: non ho sentito voci simili alla mia alzarsi dall’altra parte, non a sufficienza. Non ci sono stati discorsi simili tenuti da cantanti palestinesi o arabi o musulmani: non hanno criticato lo status quo, né chiesto un’altra strada. Tante delle persone con cui per anni abbiamo lavorato insieme non hanno preso le distanze in modo netto dal 7 ottobre: capisco il clima, capisco l’odio che c’è in giro ma io credo che anche quando l’obiettivo appare lontano, lontanissimo, come ora, devi lavorare per raggiungerlo. Anche quando ad accoglierti ci sarà altro odio».
Lei critica il silenzio dei progressisti occidentali. Ma anche in Israele tanti sono rimasti in silenzio: a Gaza sono morte più di 27 mila persone, non certo tutti terroristi. Pochi, pochissimi, qui si scandalizzano per questo…
«C’è un fatto che forse chi non vive in Israele non capisce: qui non si vede Gaza, non vediamo le immagini di quello che succede lì, ci sentiamo ripetere che due milioni di persone che abitano lì sono tutte, indistintamente, parte di Hamas. Questo è ciò che la televisione israeliana racconta al suo pubblico. Non sto giustificando, ma sto cercando di spiegare che ci vuole uno sforzo notevole per uscire dalla bolla. Lo stesso vale dall’altra parte: sa quanti arabi credono che il 7 ottobre non sia mai avvenuto? Che le foto di quell’orrore siano state realizzate con l’intelligenza artificiale? C’è odio e rifiuto di guardarsi in faccia: insieme ad altri artisti e intellettuali, come David Grossman, ho firmato un appello di Amnesty International per chiedere di smettere di de-umanizzare il conflitto. Non sa che attacchi feroci ho ricevuto per questo».
Eppure lei all’inizio di questa conversazione ci aveva detto di essere ottimista…
«Io credo che non distruggersi l’uno con l’altro, convivere, sia l’unica soluzione: e allora parliamo di come. Agli amici italiani faccio un appello, lo stesso che ripeterò a Napoli il 23 febbraio quando canterò al teatro Trianon: non prendete la bandiera di Israele e neanche quella della Palestina per andare in piazza. Prendetele insieme, portatele una accanto all’altra».
Terrà altri concerti in Europa?
«No, sono stati tutti annullati. E la cosa non mi ha lasciata indifferente».
Come ci lasciamo?
«È questione di tempo e Israele si libererà di Netanyahu. Verrà una nuova destra? Può darsi. Ma verranno anche volti nuovi: i protagonisti delle rivolte contro la protesta giudiziaria, ex militari come Yair Golan che da solo ha salvato una decina di ragazzi del Nova festival, o chi ha pagato in prima persona per essere stato abbandonato dal governo. Un’esplosione di così grande entità cambia le carte in tavola. La speranza è che porti a qualcosa di diverso rispetto a quello che abbiamo visto finora».
Noa nella canzone “Beautiful that Way” dal film “La vita è bella” di Roberto Benigni
Nell’immagine: Noa
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