Ortega il sempiterno
Il delirio di potere perpetuo dell’ex rivoluzionario diventato dittatore
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Il delirio di potere perpetuo dell’ex rivoluzionario diventato dittatore
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Il delirio di potere perpetuo dell’ex rivoluzionario diventato dittatore
Tale vocazione a “sempiterno” (aggettivo che gli si addice per la sua verve messianica) potrebbe apparire come il minor dei mali in un’epoca planetaria tendente in ogni dove all’autoritarismo. Ma si avvicinasse almeno un tanto a uno statista del calibro di Fidel Castro in quella Cuba che, a sole 90 miglia dalle coste dell’imperio di cui era un’appendice, ha appena compiuto miracolosamente 63 anni di sovranità nazionale. Una sovranità certo non all’insegna, e forse incompatibile, con quella democrazia che noi dell’emisfero nord-occidentale benestante abbiamo sperimentato almeno fino a un po’ di tempo fa (e ora anche qui, per varie ragioni, sempre più malata). Sì, la Perla de las Antillas dove si sono inventati da soli nientemeno che il vaccino contro il Covid per una popolazione intera (e oltre); mentre il Nicaragua è il paese che nel 2020, secondo la rivista Lancet, peggio ha gestito la pandemia in America Latina. Un subcontinente le cui disperate popolazioni hanno visto da sempre come un miraggio le condizioni di vita, salute e istruzione di Cuba; pur così precarie oggi per l’embargo più feroce, illegale e prolungato della storia moderna.
Viene dunque da chiedersi a che pro Daniel Ortega, in tutti questi anni di governo, abbia relegato a un misero assistenzialismo lo zoccolo duro dei diseredati del Nicaragua che lo sostenevano, se non per stipulare con l’avida oligarchia locale un patto per unicamente sommarsi ad essa nelle ricchezze. Avesse preteso in cambio almeno qualche tassa da ripartire alla propria storica base sociale, che a quel punto lo ha abbandonato… Come spiegare altrimenti, in questo delirio di potere perpetuo, la mattanza del 2018 per soffocare la ribellione dei giovani universitari che trascinarono nelle strade la gran parte della popolazione in oceaniche manifestazioni viste solo nei primi anni della Revolución Popular Sandinista? Sta di fatto che Ortega ha voluto assumere provocatoriamente a modo suo l’ennesimo mandato, dopo la farsa elettorale del 7 novembre scorso, che ha visto le urne andare deserte per l’assenza, fra l’altro, dei sette contendenti da lui incarcerati nei mesi precedenti. E lo ha fatto equiparando paradossalmente nel suo discorso l’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti di un anno orsono proprio con la rivolta popolare del 2018, che vide la mattanza di almeno 355 nicaraguensi, duemila feriti e, ad oggi, 150mila espatriati. Oltre che convertire poi il paese nell’odierno stato di polizia.
Fin da allora il “fu” comandante guerrigliero si era inventato il tentato golpe ordito dagli Usa verso un paese che il Dipartimento di Stato in realtà ignorava ormai da un pezzo. Così che oggi si è abilmente riferito ai due pesi e due misure che sarebbero adottati fra gli “atti di terrorismo” degli eventi di Washington (con relativi “700 detenuti politici trattati duramente in attesa di libertà”) e “il terrorismo organizzato dagli yanquis in Nicaragua” fatto passare come “lotta per la democrazia e i diritti umani”.
Naturalmente Ortega ha osservato un assoluto silenzio sui “suoi” 166 prigionieri di coscienza, di differenti estrazioni politiche, rinchiusi in condizioni disumane nelle prigioni nicaraguensi. La cui liberazione potrebbe essere presto oggetto di scambio con le crescenti imposizioni adottate dalla comunità internazionale. Fra essi la comandante sandinista Dora Maria Tellez (e altre 14 donne), l’ex generale dell’esercito sandinista Hugo Torres (ricoverato ora in pericolo di vita) e l’ex prete ministro (durante la rivoluzione) l’ottantenne Edgar Parrales; o il giovane leader degli universitari insorti, Lesther Alemán; così come esponenti della destra a cominciare dalla figlia della ex presidente Violeta de Chamorro, Cristiana (agli arresti domiciliari) che si sarebbe candidata alla presidenza.
Sembra quasi che Daniel Ortega e Rosario Murillo (sua potente vice, nonché consorte) soffrano di una qualche nostalgia di Donald Trump che, si sa, aveva un debole per le autocrazie; e che di fronte alle rassicurazioni della coppia presidenziale che quegli imprevedibili ribelli “nipoti” di Sandino li avrebbero controllati loro, si era limitato a decretare timide sanzioni ad personam. Mentre Joe Biden negli ultimi due mesi (insieme all’Unione Europea) ha assunto invece un atteggiamento ben più severo.
Si spiega dunque così come l’opportunista Ortega sia stato costretto ora a mettere il piede nella sola scarpa dell’antimperialismo originario. Mentre fino a ieri negoziava disinvoltamente con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale; oltre ad aver ratificato il Trattato di libero commercio dei paesi centroamericani con gli Stati Uniti (Cafta) tuttora in funzione (con metà delle esportazioni del Nicaragua che continuano ad avere come destino gli Usa).
Non è un caso che al suo reinsediamento a Managua ci siano andati i presidenti dei due paesi dell’Alleanza Bolivariana sui quali l’imperio del norte incombe da sempre davvero con embarghi soffocanti: il venezuelano Nicolás Maduro (generosissimo con Ortega fin dai tempi di Chavez) e, per la prima volta, il presidente cubano Miguel Díaz Canel (dopo la lontanissima e unica visita di Fidel Castro nel 1980 al primo anniversario della rivoluzione sandinista).
Peccato che si sia presentato anche il presidente uscente dell’Honduras, il reazionario corrotto Juan Orlando Hernandez, che forse pensa già a fine mese di riparare in Nicaragua, visto che è indagato negli States per narcotraffico; e che con Ortega si è spartito fin qui disinvoltamente i fondi del Banco Centroamericano de Integración Economica.
Per il resto dall’America Latina sono giunte delegazioni minori dalla Bolivia e dal Belize; mentre Messico e Argentina erano rappresentati solo da diplomatici. Un po’ poco, a testimonianza dell’isolamento che incombe sulla dittatura orteguista. Isolamento confermato dalla recente risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani che aveva dichiarato illegittime le ultime elezioni (con 25 voti a favore, 7 astenuti e il solo voto contrario del Nicaragua).
In compenso Ortega, dopo 15 anni di governo, ha rotto con Taiwan, riconosciuta finora in cambio di lauti finanziamenti. E lo ha fatto espropriandone la sede diplomatica, per consegnarla direttamente nelle mani di Pechino (con cui ha firmato l’accordo sulla Nuova via della Seta). I decisivi rapporti con la Cina e la Russia, presenti con proprie delegazioni alla cerimonia di reinvestitura, sono curati direttamente da due dei figli degli Ortega, rispettivamente Laureano e Rafael; a confermare il decollo di una nuova dinastia in Nicaragua che scommette sul rapido cambiamento dei rapporti di forza planetari, anche nel subcontinente latinoamericano, dove gli Usa stanno perdendo una fetta significativa della propria egemonia.
Il regime orteguista si sta così tragicamente sostituendo alla tirannia dei Somoza, che, storico paradosso, lo stesso Ortega contribuì ad abbattere. E così come Anastasio Somoza fu un sodale del massone Roberto Calvi, che nel 1977 aprì a Managua il Banco Comercial, allo stesso modo Daniel Ortega ha nominato proprio ambasciatore, prima in Uruguay ed ora in Canada, Maurizio Gelli, figlio di tanto venerabile Licio.
Certo non è la migliore eredità per la passata Rivoluzione Sandinista, l’ultima del secolo scorso in America Latina, e che più aspettative aveva suscitato a tutte le latitudini per il suo anelito di “pluralismo politico, economia mista e non allineamento”. Washington fece di tutto per stroncarla e azzerarne il potenziale contagio. Non ci riuscì, ma c’è riuscito Ortega. Un esito doppiamente infausto dunque.
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