Di Alessandro Mancini, Valigia blu
La maggior parte della produzione di Adidas avviene in paesi come Cambogia, Myanmar e Indonesia, dove i sistemi di protezione sociale sono inadeguati, se non inesistenti. Così, quando l’avvento della pandemia ha costretto molte fabbriche a chiudere i battenti, i lavoratori sono rimasti a casa senza stipendio. Una ricerca dell’Ong svizzera Public Eye sulle fabbriche cambogiane che producono materiali per diverse multinazionali dell’abbigliamento ha dimostrato che Adidas non ha ancora pagato oltre 30mila lavoratori di 8 fabbriche fornitrici, a cui spettano 11,7 milioni di dollari fra salari e rimborsi per i primi quattordici mesi della pandemia, circa 387 dollari per lavoratore.
Adidas ha riferito al Sourcing Journal di respingere tutte le accuse. “Durante la pandemia, Adidas si è impegnata a rispettare pratiche di lavoro giuste, garantire salari equi e condizioni di lavoro sicure in tutta la sua catena di approvvigionamento globale”, ha affermato un portavoce. “Abbiamo continuato a rifornirci dai nostri partner e ci siamo impegnati a pagare tutti gli ordini e a controllare che fossero stati completati o in corso di elaborazione. Abbiamo continuato a garantire la conformità legale in termini di retribuzione e benefici per tutti i lavoratori e abbiamo monitorato le condizioni di lavoro in ogni singola fabbrica”.
La questione non riguarda però solo i lavoratori attuali, ma anche quelli che non producono più vestiti per la multinazionale tedesca e che aspettano ancora di essere pagati. Come le operaie della fabbrica di Hulu Garment, situata a Phnom Penh, in Cambogia, licenziate all’inizio della pandemia, ma che devono ancora ricevere 3,6 milioni di dollari. La fabbrica tessile fornisce non solo Adidas, ma anche Amazon, Walmart, Macy’s e LT Apparel Group, e nel marzo 2020 ha sospeso l’intera forza lavoro, costituita da 1.020 lavoratori e lavoratrici. Con l’avvicinarsi della fine del periodo di sospensione, il 22 aprile la direzione ha chiamato i lavoratori e ha detto loro che, a causa della pandemia di Covid-19, la fabbrica non aveva ordini e avrebbe potuto essere costretta a licenziare i lavoratori. La direzione ha inoltre chiesto ai lavoratori di “firmare” un documento con l’impronta digitale per ricevere la paga, spiegando che altrimenti non avrebbero potuto trasferirgli il loro ultimo stipendio. Quel giorno tutti i lavoratori di Hulu Garment hanno firmato il documento, senza accorgersi che, nascosta tra le righe, c’era una frase che dichiarava che si stavano dimettendo. La direzione aveva coperto la parola “dimissioni”, che compariva in cima a ogni lettera, apponendo l’ultima busta paga del lavoratore a coprirla.
Il giorno dopo, quando è diventato chiaro ai lavoratori che il loro datore di lavoro li aveva ingannati facendoli firmare lettere di dimissioni per evitare di pagare 3,6 milioni di dollari di fine rapporto, centinaia di loro hanno protestato per chiedere la reintegrazione. Il mese successivo la fabbrica ha riaperto, ma almeno 500 operai non sono stati riassunti. Un anno dopo, questi lavoratori continuano a chiedere il pagamento del trattamento di fine rapporto che gli spetterebbe per legge.
Non finisce qui: nel maggio 2022, 5.600 lavoratori di un altro fornitore Adidas in Cambogia hanno scioperato per i salari non pagati. Secondo Pay Your Workers la fabbrica avrebbe risposto facendo arrestare i leader sindacali e obbligandoli a firmare accordi con “le autorità locali tramite l’impronta digitale, affermando che non avrebbero svolto ulteriori attività che avrebbero causato” disordini “in fabbrica”.
Il mancato pagamento dei salari e delle indennità di licenziamento si estende però ben oltre la sola Cambogia e prosegue lungo tutta la catena di fornitura globale di Adidas. Questa, infatti, non è la prima volta che l’azienda si trova a fare i conti con il mancato pagamento della sua manodopera. Già nel 2013, Adidas è stata costretta a pagare i lavoratori del PT Kizone in Indonesia che avevano lottato per due anni per ricevere il trattamento di fine rapporto, pari a 1,8 milioni di dollari, che era loro dovuto dopo aver perso il lavoro.
Mentre i lavoratori tessili attendono di ricevere i soldi che gli spettano, nel 2021 il colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo ha toccato i 21,2 miliardi di euro di fatturato, segnando un aumento del 15% rispetto al 2020. Nonostante le difficoltà e il contesto avverso in Cina e in Asia-Pacifico, per via delle chiusure prolungate legate alla pandemia di Covid-19 e le interruzioni della catena di approvvigionamento a livello industriale, la crescita dei ricavi della multinazionale non si è arrestata, superando gli 1,5 miliardi di euro di utile netto nel corso del 2021 (+223% rispetto all’anno precedente).
Adidas non è però l’unico grande brand ad aver licenziato i lavoratori tessili durante la pandemia e a non aver corrisposto loro i soldi che gli spettavano. La pandemia di Covid-19 ha avuto conseguenze disastrose sui lavoratori dell’industria globale dell’abbigliamento. A causa dell’improvviso calo della domanda, i marchi hanno annullato gli ordini senza pagare. Molte fabbriche sono state costrette a chiudere e i lavoratori sono stati licenziati in massa, spesso senza preavviso o risarcimento. Una ricerca del Worker Rights Consortium (WRC) ha identificato 31 fabbriche di abbigliamento, tra cui quella di Hulu Garment, in nove paesi, che hanno licenziato i propri lavoratori e poi non hanno pagato loro il trattamento di fine rapporto che legalmente gli spettava. In alcuni casi, i lavoratori hanno ricevuto solo un pagamento parziale; in altri, non hanno ricevuto nulla. In totale, queste 31 strutture hanno rubato 39,8 milioni di dollari a 37.637 lavoratori: una media di più di mille dollari a persona, che corrisponde a circa cinque mesi di stipendio standard per un lavoratore nel settore dell’’abbigliamento.
Fra i marchi coinvolti in questi casi, oltre ad Adidas, compaiono Amazon, H&M, Inditex, Next, Nike, Target, e Walmart, tutte aziende che hanno realizzato profitti importanti anche durante la pandemia. Secondo una ricerca della non-profit Clean Clothes Campaign intitolata “Ancora non(sotto)pagati”, nei primi tredici mesi della pandemia di coronavirus, i lavoratori tessili hanno perso globalmente 11,85 miliardi di dollari di entrate. Per garantire a questi lavoratori un salario decente e un rafforzamento delle protezioni contro la disoccupazione per il futuro, ai grandi marchi, che hanno guadagnato miliardi di profitti in questi anni, basterebbe aumentare di soli dieci centesimi il costo di ciascuna maglietta scrivono su Thomson Reuters Foundation Christie Miedema e Liana Foxvog, rispettivamente coordinatrice della campagna e direttrice di risposta alle crisi per Clean Clothes, assieme a Scott Nova, direttrice esecutiva presso il Workers Rights Consortium.
Nell’immagine: lavoratrici della Hulu Garments protestano dopo aver scoperto l’imbroglio spiegato nell’articolo