Vite sospese
Percorsi esistenziali di rifugiati e migranti, tra un progetto (la voglia e l’esigenza di ricostruirsi passo dopo passo) e le aspettative di chi non è partito
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Percorsi esistenziali di rifugiati e migranti, tra un progetto (la voglia e l’esigenza di ricostruirsi passo dopo passo) e le aspettative di chi non è partito
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Percorsi esistenziali di rifugiati e migranti, tra un progetto (la voglia e l’esigenza di ricostruirsi passo dopo passo) e le aspettative di chi non è partito
Avevo appena cominciato a leggere il piccolo, intenso saggio di Hannah Arendt “Noi rifugiati” (pubblicato nel 1943 negli Stati Uniti, sua terra d’approdo, e riproposto recentemente da Einaudi), pochi pochissimi paragrafi e subito mi sono scorsi davanti agli occhi i visi delle persone rifugiate in Ticino che, negli anni, ho incontrato. E non sono poche: persone arrivate con la famiglia, uomini, donne, donne sole con i propri bambini, minorenni non accompagnati; c’è chi arriva dalla Siria, dalla Somalia, chi dall’Afghanistan, dall’Eritrea, chi dall’Etiopia o dal Pakistan, ci sono le persone che hanno lasciato i paesi balcanici una trentina di anni fa e quelle fuggite dall’Ucraina. “Persone” che troppo spesso diventano dati, numeri, statistiche, “emergenze”. Spersonalizzate e, perciò, spesso anche disumanizzate.
Non ero, dicevo, neanche arrivata in fondo alla seconda pagina e quella frase mi ha fatto pensare a tutte queste persone che ho potuto incontrare e conoscere. Mi ha fatto ripensare a quante volte mi sono trovata di fronte persone che mi hanno raccontato la sofferenza di aver dovuto lasciare (dovuto, non per scelta o progetto di vita, ma per salvare la pelle propria e dei propri cari) tutto quello che si conosce, tutto ciò che è familiare, la difficoltà di imparare una lingua, le aspettative: trovare un lavoro, diventare indipendenti, tentare di ricucire quello strappo così violento, costruire una vita.
Ricordo l’incontro con un giovane giunto dalla Siria con la sua famiglia. Era il 2014, erano appena arrivati, e mi raccontava la sua rabbia quando i genitori gli hanno comunicato che avrebbero lasciato la loro città, Aleppo, troppo rischioso rimanere. La rabbia di lasciare la sua scuola, il liceo che frequentava, i suoi amici, la sua città, la casa… si era opposto, non voleva andare via, perdere la sua vita di sempre per andare dove? Dove non conosceva nessuno e neanche la lingua. Dove ricominciare daccapo: una nuova scuola e un nuovo percorso formativo (perché quello iniziato in Siria non poteva proseguire), nuovi insegnanti, nuovi compagni di scuola, relazioni da costruire ex novo, in una situazione di precarietà, sempre nella speranza di poter, un giorno, ritornare.
Un percorso che lo ha portato a compiere scelte coraggiose e impegnative, fare compromessi importanti con le sue aspettative, i suoi progetti, la voglia e il bisogno di essere indipendente e autosufficiente il più presto possibile. Forse, non pensiamo abbastanza a quanto viene chiesto a queste persone: alla capacità e alla forza che ci vogliono per rimettersi in gioco, di mettere in gioco i propri sogni, i progetti. Quello che sto raccontando è un percorso di successo e oggi questo giovane lavora, ha una sua famiglia, coltiva i suoi sogni (non li ha abbandonati, per fortuna!).
Ma non è sempre così: ricominciare una vita qui, con un permesso F, “l’ammissione provvisoria” (sorte che tocca a molte persone che fuggono dalle guerre e che non ottengono lo statuto di “rifugiato/a”), spesso genera insicurezza (“Quando mi diranno che non posso più restare, perché non ho più bisogno di essere protetto, potrò davvero tornare nel mio paese? Cosa rischio al mio rientro? Che cosa troverò? La mia casa, ci sarà ancora? Ma, soprattutto: potrò mai davvero tornare, si daranno mai le condizioni per un ritorno?” sono le domande e le paure di molte persone che ho incontrato) oltre che diffidenza e difficoltà nella ricerca di un posto di lavoro. E per la stragrande maggioranza delle persone che ho incontrato trovare un lavoro è vitale, quasi quanto nutrirsi o respirare. È il potercela fare con le proprie forze, badare alla propria famiglia, non essere di peso al paese che ha dato accoglienza e protezione.
Molto spesso è anche la necessità di aiutare chi è rimasto e chi ha investito speranze, ma non solo, in chi parte. Allora diventa forse un po’ più comprensibile la necessità, quasi ossessiva, di trovare un lavoro il più presto possibile e, dall’altra parte, la difficoltà a capire i tempi dei nostri programmi d’inserimento professionale o formativi, la rabbia e la delusione. Quante volte mi sono sentita dire che la cosa più difficile e anche più dolorosa, il trauma di questi “viaggi della speranza”, è proprio la speranza disattesa: la vergogna per il fallimento di un progetto così vitale, l’impossibilità di rispondere alle aspettative e ai bisogni di madri, fratelli, sorelle o padri che hanno investito tutto quello che avevano per permettere al prescelto o alla prescelta di compiere quel percorso – assumendo rischi per noi neanche lontanamente immaginabili – per realizzare quella salvezza non solo per sé ma anche, e soprattutto, per chi rimane.
Basta pensare all’ultimo film dei fratelli Dardenne, “Tori et Lokita”, dove la sedicenne Lokita cerca disperatamente e in ogni maniera un lavoro, non solo per ottenere un visto lavorativo e ripagare il passatore che l’ha portata in Belgio, ma anche per riuscire a mandare alla madre, in Camerun, i soldi per far studiare e mantenere i suoi cinque fratelli.
Molte delle persone che ho incontrato vivono come sospese. Sono, le loro, vite sospese tra un progetto (la voglia e l’esigenza di ricostruirsi passo dopo passo), le aspettative di chi non è partito (e, in molti casi, anche il senso di colpa verso chi non lo ha potuto fare o non ce l’ha fatta) e le regole e le tappe dei programmi d’integrazione sociale e professionale.
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