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Di Massimo Nava, Corriere della Sera

Ci sono due narrazioni della politica internazionale in relazione alla guerra in Ucraina: il mondo contro la Russia, l’Occidente e i suoi alleati contro la Russia. Poi c’è la realtà oggettiva, quella che vede gli Stati Uniti contro la Russia, l’Europa contro la Russia, ma con qualche distinguo e mal di pancia, gli Alleati o presunti tali che non condannano, non sanzionano e in qualche caso approfittano; e infine la Cina, che non approva la sciagurata impresa del Cremlino, ma gioca a tutto campo per trarne il massimo vantaggio economico e diplomatico. In questo quadro, ecco una notizia di questi giorni che ha avuto scarsa eco, ma di rilevante importanza: la visita del leader cinese Xi a Riad e l’accordo che Cina e Arabia Saudita hanno firmato venerdì, definito strategico. Negli ultimi tempi, il regime saudita ha accelerato gli sforzi per diversificare le alleanze, cercando di superare la dipendenza dagli Stati Uniti in materia di sicurezza e armamenti.

«In Arabia Saudita e in tutto il Medio Oriente cresce la percezione che gli Stati Uniti — visti come una superpotenza in declino a lungo termine — abbiano perso interesse per la regione », è il commento del New York Times. I legami dell’Arabia Saudita con la Cina si sono rapidamente rafforzati, trasformando quella che un tempo era una relazione basata sul petrolio in una relazione più complessa che coinvolge vendita di armi, trasferimenti di tecnologia e progetti infrastrutturali. In un’intervista del 2004, l’allora ministro degli Esteri saudita Saud al Faisal disse al Washington Post che la relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita non era un «matrimonio cattolico», in cui era ammessa una sola moglie, ma un «matrimonio musulmano», in cui erano ammesse quattro mogli. Tradotto in politica, significa avere più amici o più alleati e non dipendere da nessuno.

Nell’attuale Guerra Fredda 2.0 l’Arabia Saudita si rifiuta di scegliere da che parte stare, ma è anche probabile che si avvicini a Pechino e a Mosca in base ai propri interessi. E Washington non è più l’unica moglie. Foreign Policy, in un lungo saggio, riassume le tappe di una relazione deteriorata da tempo. Tra queste, gli attacchi terroristici dell’11 settembre, in cui 15 dei 19 dirottatori erano di nazionalità saudita, e le persistenti domande su quanto il governo saudita fosse a conoscenza del complotto;l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che ha portato a un regime di Baghdad dominato dagli sciiti e vulnerabile all’influenza iraniana; la reazione degli Stati Uniti alla Primavera araba, in cui Washington ha fatto pressioni sull’allora presidente egiziano Hosni Mubarak affinché si dimettesse e ha incoraggiato le riforme democratiche in altre zone del Medio Oriente e del Nord Africa — azioni che la monarchia saudita vedeva come una potenziale minaccia per il proprio potere; la rivoluzione del fracking e dello shale che ha reso gli Stati Uniti un concorrente nel settore petrolifero; l’accordo nucleare dell’amministrazione Obama con l’arcinemico dell’Arabia Saudita, l’Iran. Infine, l’ascesa diMohammed bin Salman e l’ordine di uccidere il dissidente saudita e residente negli Stati Uniti Jamal Khashoggi.

Un’ulteriore conferma delle distanze si è avuta quandosauditi e russi hanno guidato la decisione di tagliare la produzione di 2 milioni di barili al giorno, «un atto che è stato visto a Washington come un sostegno diretto al finanziamento della macchina da guerra del presidente russo Vladimir Putin in Ucraina». Cosa offre la Cina all’Arabia Saudita? « Per Mohammed bin Salman, la Cina non è solo una leva da usare contro gli Stati Uniti. Ha un valore reale a sé stante». La Cina è oggi il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita, avendo superato negli ultimi anni il commercio bilaterale con Stati Uniti. Come riporta il New York Times, «le aziende cinesi sono profondamente radicate nel regno, costruendo megaprogetti, installando infrastrutture 5G e sviluppando droni militari».

I cinesi non si occupano solo di infrastrutture. Evan A. Feigenbaum, vicepresidente per gli studi presso il Carnegie Endowment for International Peace, ha dichiarato a Foreign Policy che Pechino sta perseguendo un approccio multidimensionale che include tecnologia e telecomunicazioni. Il mese scorso, la società di telecomunicazioni cinese China Mobile International ha firmato un memorandum d’intesa con Riad «per far progredire l’ecosistema dei media digitali in Arabia Saudita». Ma un elemento non trascurabile èl’atteggiamento della Cina sul tema dei diritti umani: nessuna interferenza, come si è visto ad esempio nel rapporto con i talebani in Afghanistan, come si vede nella relazione con molti Paesi africani e come si dimostra oggi nei confronti dei sauditi.

Questo funziona in entrambi i sensi: Xi ha viaggiato raramente al di fuori della Cina dall’inizio della pandemia di Covid-19 e non è una coincidenza che abbia scelto l’Arabia Saudita come uno dei suoi primi viaggi all’estero: un Paese gestito da un altro regime autoritario dove non ci saranno proteste o copertura imbarazzante da parte della stampa nei confronti degli uiguri, di Hong Kong o delle recenti manifestazioni cinesi contro le chiusure del Covid-19. In quanto membri integerrimi del club degli autoritari, sia Mohammed bin Salman che Xi hanno un legame che li unisce contro pressioni esterne per riforme democratiche e rispetto dei diritti umani. Mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sulla guerra di Putin, il club degli autocrati si rafforza e si allarga. L’indignazione internazionale non smuove l’Iran. Pechino è sorda alle riforme interne. Erdogan ha le mani libere all’interno del suo Paese grazie all’importanza strategica della Turchia nella Nato. E l’elegante vetrina del Qatar ha messo il silenziatore su violazioni dei diritti, moria di lavoratori stranieri e corruzione.






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