Praga 21 agosto ’68, andando a scuola fra i carri armati sovietici
Cinquantacinque anni fa l’intervento dell’Urss soffocava l’esperimento del “socialismo dal volto umano”; una testimonianza particolare - Di Vera Snabl
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Cinquantacinque anni fa l’intervento dell’Urss soffocava l’esperimento del “socialismo dal volto umano”; una testimonianza particolare - Di Vera Snabl
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Cinquantacinque anni fa l’intervento dell’Urss soffocava l’esperimento del “socialismo dal volto umano”; una testimonianza particolare - Di Vera Snabl
Nella hall dell’albergo la radio era sintonizzata sulle onde della BBC. Attorno, un gruppo di persone. Volti ansiosi e sconvolti, molte lacrime, gente che si sentiva male, e qualche insulto verso i “fraterni amici”. Mio padre Hanus, con la sua voce profonda, professionale, ma comunque tradita dall’emozione ripeteva “alle prime luci dell’alba di oggi, 21 agosto, i tank dell’Armata Rossa…”. Un senso di smarrimento che, tanti anni dopo, riprovai davanti alle scene dell’attacco alle Torri Gemelle.
Crollavano i nostri sogni. Quella che soprattutto all’estero era una bella espressione, “il socialismo dal volto umano”, per noi era semplicemente una promessa di libertà. “Svoboda projevu… i po projevu”, “libertà di esprimersi… ma anche dopo”, diceva lo slogan della primavera nata con le riforme di Alexander Dubcek. C’erano altri slogan, pieni di rabbia, ma anche beffardi e carichi di ironia. Uno diceva “il comunismo ai comunisti!”.
Sembrava che la storia dovesse riservare a noi Snabl un “trattamento speciale”. Mezza famiglia sterminata ad Auschwitz, mio padre da bambino salvato con l’operazione di salvataggio Kindertransport (669 piccoli cecoslovacchi ebrei portati in Gran Bretagna e così salvati dai nazisti grazie a Nicholas Winton): al suo ritorno in patria, a guerra finita, terminati gli studi di giornalismo, la sentenza del nuovo regime: “sei ebreo, hai vissuto in Inghilterra e non sei neanche iscritto al partito”, quindi bollato come inaffidabile. Così Hanus fu spedito, insieme a un gruppo dell’intellighenzia, ai lavori forzati in una miniera di carbone della Boemia. Cinque anni per ottenere una parziale “riabilitazione”, il ritorno a Praga, il lavoro in una rivista specializzata in motori (un’altra piccola punizione: sui quotidiani non gli era permesso scrivere), e, per casa, non un appartamento normale ma una piccola sinagoga, naturalmente vietata al culto. Così aveva deciso lo Stato.
Non so quanto tutte queste avversità pesarono sui rapporti fra i miei genitori, e infine sulla loro decisione di divorziare. Invece so, sapevamo, che da tempo, e dopo tante umiliazioni, Hanus aveva maturato la decisione di lasciare la Cecoslovacchia. E ci riuscì, con un sotterfugio, nel 1964. Ecco perché nel giorno dell’invasione sovietica, in quell’albergo sul Mar Nero, la voce di mio padre ci arrivava da così lontano e attraverso una stazione radio straniera.
Rientrare subito a Praga era impossibile. Aeroporto bloccato, aperto solo ai Tupolev che partorivano mezzi blindati e militari dell’Armata Rossa. Giovani prelevati nelle province, convinti di andare a soffocare i rivoltosi che minacciavano “il popolo fratello”. Scoprivano invece che la gente si avvicinava ai carri armati per chiedere il motivo della loro presenza, per spiegarsi, per implorare. Molti di quei soldati capirono, era la libertà che erano stati mandati a soffocare! Dopo poche settimane, alcuni reparti delle forze occupanti ricevettero l’ordine di rientrare e vennero sostituiti. Non avevano visto una controrivoluzione, avevano ascoltato le parole di libertà, molti si sentivano ingannati, e per i padroni del Cremlino era troppo pericoloso lasciarli a Praga.
Per noi l’unico modo di lasciare la Romania fu l’autostop. La decisione di mia madre fu quella di tentare un viaggio fino a Parigi, dove potevamo contare su Pavel Tigrid, intellettuale e profugo già dagli anni cinquanta, fondatore della rivista “Svedectví” (“Testimonianze”), al quale il secondo marito di mia madre, Bohuslav Musil, noto regista e anche noto sostenitore di Dubcek, aveva già fatto pervenire in passato documenti sulla reale situazione politica ed economica in Cecoslovacchia. Pavel Tigrid diventò poi ministro della cultura nel primo governo democratico dopo la caduta del “muro di Berlino”, il governo di Václav Havel. A Parigi arrivammo grazie all’aiuto di alcuni turisti francesi. Il viaggio, anche se facilitato dalla comprensione di molti funzionari di confine ben disposti nei confronti dei cittadini cecoslovacchi, durò ben una settimana. Attraversammo Jugoslavia, Austria e Germania. Furono le persone incontrate durante quel viaggio a raccontarci cosa avevano visto in televisione, e proprio grazie a quei resoconti avevamo ora dopo ora la conferma del dramma che stava travolgendo il nostro paese. Sollevati che non ci fosse il temuto bagno di sangue, ma soffocati dal senso di impotenza.
A Parigi ci fu finalmente possibile comunicare con Musil. La situazione a Praga, ci raccontò, era confusa. Dubcek era stato arrestato dopo un tempestoso incontro con i capi sovietici in URSS, ma la gente resisteva, il governo non era ancora stato deposto, impossibile fare previsioni. Impossibile per lui, Musil, lasciare Praga e non documentare l’occupazione sovietica. Il suo film su quei giorni “Ceskoslovenské jaro” (“La primavera cecoslovacca”) fu in seguito proiettato nell’ambito di una rassegna al Trieste Film Festival, nel 2008. L’importanza di queste testimonianze affidate a macchine fotografiche e cineprese venne ben spiegata da Milan Kundera: “i fotografi e gli operatori cinematografici cechi capirono che proprio loro potevano fare l’unica cosa che si potesse ancora fare: conservare per un lontano futuro l’immagine di una tale violenza. I russi non sapevano che fare. Avevano ricevuto precise istruzioni su come comportarsi se qualcuno avesse sparato contro di loro, ma nessuno aveva dato ordini su come reagire se qualcuno avesse puntato su di loro l’obiettivo di una macchina fotografica oppure una cinepresa”
Per noi, dunque, l’unica possibilità di un rientro era quella di avvicinarsi il più possibile al confine austriaco-cecoslovacco. Lì Musil avrebbe tentato di raggiungerci per riportarci a casa, confidando nel caos che regnava anche ai valichi di frontiera. Ci incontrammo con lui a Vienna, e partimmo per Praga. Il ricordo più angosciante è quello dei carri armati allineati lungo la strada. Non c’erano altre auto, solo la nostra “Skoda” minacciosamente seguita dai cannoni dei carri armati.
Non era più la mia Praga, la Praga che prometteva tanto, dove si respirava davvero un’aria nuova, anche i rapporti interpersonali erano diventati meno sospettosi. Era nato il coraggio di esprimersi, un’euforia liberatoria dopo tanti anni di verità solo sussurrate o semplicemente taciute o negate. Fine della speranza. Subentra l’angoscia; peggio, l’indifferenza. Non vedo (non voglio vedere) i carri armati che controllano i ponti e i crocevia, non guardo (non voglio guardare) i soldati impauriti, non accetto (non voglio accettare) una città che non ha più i suoi suoni, le sue luci, i suoi odori. Resto impietrita davanti al soldato che, mentre vado a scuola, mi punta il mitra chiedendomi se ho paura. Sono sconvolta davanti alla pretesa di pagare un dazio per poter attraversare il ponte Carlo sulla Moldava, davanti alla rassegnazione che cresce, davanti alle scritte anonime sui muri, unica e ultima testimonianza di protesta e di resistenza.
In casa si parla solo di come farmi uscire dal paese. Musil fa parte del gruppo di storici e registi vicini a Dubcek, che in quei giorni raccolgono testimonianze e documenti sull’occupazione miliare. Servono per scrivere una prima bozza del cosiddetto “Libro Nero”, in risposta a quello “Bianco” dei sovietici che invece pretende di spiegare i motivi “dell’aiuto chiesto dai cecoslovacchi ai fratelli del Patto di Varsavia”. L’unica possibilità di far conoscere il “Libro Nero” è portarlo all’estero.
Non so come, non so grazie a chi, ottengo il visto per l’espatrio. In valigia ho le bozze del “Libro nero“, sistemato semplicemente tra i vestiti, e con l’ingenuità dei sedici anni mi chiedo cosa potrà capitarmi all’aeroporto. A tutti viene ispezionato il bagaglio, non a me. La paura è comunque tanta, un controllo significherebbe una tragedia per me e per tutta la mia famiglia.
Passo indisturbata. Pura fortuna? Oppure aveva funzionato una sorta di “rete di protezione” organizzata a mia insaputa? Quattro ore dopo sono nel centro di Londra, all’ufficio postale a Trafalgar Square, aperto 24 ore su 24. È quasi notte. L’ordine è di spedire immediatamente il “Libro Nero” a Parigi, destinatario Pavel Tigrid. Mi telefona due giorni dopo, il libro gli è arrivato, mi chiede se desidero che nella sua pubblicazione si faccia anche il mio nome. “No grazie”. Sarebbe troppo pericoloso. Mia madre, il mio fratellino e Musil sono ancora a Praga.
Nell’immagine: una donna in Piazza Venceslao a Praga ascolta le notizie sull’invasione trasmesse dalla radio e tiene in mano un quotidiano con il titolo “Perché?” in ceco e in russo
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