Di Domenico Quirico, La Stampa
«Tempo e pazienza… vriemia i tirpienia»: ricordate? Le parole che pronuncia il generale Kutuzov in “Guerra e pace” quando gli portano la notizia che Napoleone ha invaso la Russia e la Grande Armata ha scavalcato il Niemen. Tempo e pazienza: ciò che serve spesso per vincere le guerre ma anche per costruire le tregue e la pace. Tempo e pazienza. Quanto ne hanno dovuto usare e sprecare ucraini e russi, popoli generosi e appassionati, popoli drammaticamente impegnati a risolvere il proprio avvenire, per lasciarsi alle spalle guerre rivoluzioni carestie invasioni saccheggi. Non sappiamo quando riusciranno a darsi sistemi di governo e governanti che li rappresentino degnamente nella ricchezza della loro straordinaria umanità, quando si libereranno di politicanti che dilapidano senza rimorsi le loro vite per costruire sanguinari mausolei di sé stessi. Quando? Tempo e pazienza…
Si odono, dopo quasi due anni di massacro insensato! Segni, scricchiolii, tentazioni, rilanci, timidi inviti. Paiono indicare come gli stralunati elogi della guerra declamati da colti parrucconi guerrafondai delle retrovie occidentali, che hanno sfrenato manigoldi intenti a riempirsi le sacocce, siano arrivati, forse, a un vicolo chiuso. Ovvero alla aspra prova dei fatti. Perfino un altissimo alcalde della Nato, la fumisteria mistica e ben remunerata della virtù della strage, spezza un tabù, squaglia il postulato teologale che finora l’Occidente aveva concesso a Zelenski senza discutere, non si parli di nulla, vittoria e basta! Si affida a taccuini e microfoni stupefatti invece la possibilità che i titoli di coda in Ucraina descrivano non l’annientamento dell’anticristo Putin ma un mercantile baratto tra territori e sicurezza. Non farnetichio o lapsus. Una prova per vedere se… una escursione dalla cabalistica guerrafondaia alla ragionevolezza del reale.
Idee fosche! Blasfemia! Gridano a Kiev. A Bruxelles si smentisce senza esagerare. Le parole come la ghiaia di una strada si disperdono ma sotto, ed è quello che conta, si sente la pietra dura di una pesante affannosa inquietudine. Nelle capitali di una non belligeranza molto partecipe ci si domanda, finalmente! se il dogma non sia logica perversa. Gli animali da pulpito declinavano assunti elementari: la guerra non si tocca! non un centimetro di territorio al nemico! o tutti eroi o tutti ammazzati! L’ineffabile aforisma dell’immancabile trionfo dell’Occidente scudo dell’Ucraina si sfarina dopo un anno e mezzo di guerra inutile, di trincee inespugnabili, di spallate irrisolutive.
In questa tragedia ci sono alcuni che non hanno né tempo né pazienza. L’Occidente l’Europa gli Stati Uniti innanzitutto: per quanto possono sopportare la constatazione che i loro sfrenati aiuti finanziari e militari non hanno schiuso nel Donbass il cielo della Storia e che si dovranno aiutare gli incontentabili ucraini “in saecula saeculorum”? Gli ucraini non sono in grado di spazzar via i russi da soli. È da qui che bisognerà disegnare nuovi solstizi ed equinozi, e alla svelta. Scorrono tra le dita dei Biden, dei Macron e dei marabutti della vittoria, come grani del rosario in cui si ricomincia sempre da capo, le necessità pretese come “risolutive” da Kiev: munizioni cannoni mezzi antiaerei semoventi carri armati missili a lungo raggio Effe sedicidiciottotrentacinque… i raid scenografici dei droni in territorio russo, l’ossessione propagandistica per i ponti della Crimea appaiono ormai non come arguto messianismo strategico ma zibaldone distraente, sintomo di frustrazione. Non diciamo più bugie. Dobbiamo cambiare non ideali, che non abbiamo mai avuto in questa vicenda, dobbiamo cambiare illusioni.
Il tempo scorre, incombono elezioni cruciali, il consenso che fino a ieri sembrava così automatico per questa guerra per procura, un po’ vile e un po’ furba da non richiedere nemmeno riscontro referendario, scivola verso l’”adesso basta”. La vittoria è mutilata ancor prima di essere raggiunta. Al nostro vaniloquio illusorio di essere l’unico sistema ardentemente invidiato, che tutti strasudino dalla voglia di imitarci, in Asia in Africa in America Latina trovano invece liberatorio non esser succubi. Non considerano peccato mortale mettere al loro tavolo il criminale Putin, visto che l’America ha fatto lo stesso con lo Scià, Chiang Kai-shek, Mobutu, Somoza, Pinochet eccetera eccetera. Si apparecchia l’equivalente finanziario ed economico dell’attentato alle Torri Gemelle, per fortuna senza morti, la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro. Si intravede un effetto tossico per i cromosomi dell’egemonia a stelle e strisce, ovvero le palanche.
Anche Zelensky non può permettersi di avere né tempo né pazienza. Il presidente ucraino è avviluppato nella sua propaganda della vittoria a tutti i costi. Finora è riuscito con efficacia prepotente a strappare ai leader occidentali, afflitti da sensi di colpa o da ambizioni di sbarazzarsi di Putin a basso costo, tutto quanto gli serviva. Ma se la vittoria si svela come impossibile o è rinviata a un evo escatologico, non può essere lui, il callidus Zelensky, ad amministrare la dolorosa fase della accettazione della realtà. Siamo in pieno contrappasso, a Ovest si risponde con sempre maggiore fastidio alle sue mosse captatorie. Il presidente, come dimostra la tardiva caccia ai disertori ben dotati di portafoglio, ha esaurito le munizioni umane; una generazione ucraina è stata spazzata via innalzando uno Stato militare, che pretende di riscrivere, come Putin, la storia e la letteratura. L’odio verso l’invasore russo nutre, ubriaca, lo si ingoia e lo si rumina nel profondo del ventre, si può vivere del proprio odio, certo, ma non a lungo. Prima o poi si insinua qualcosa di ancor più terribile che lo placa, che fa male ancor più orribilmente: ed è la constatazione della sua inutilità pratica. Gli ucraini sono vicini al punto in cui il dolore è più forte della sensazione di esistere.
La pace può, e deve, avere tempo e pazienza. Il tempo fa il bucato agli uomini, la sporcizia non sopravvive perché il gran vento della Storia passa e purifica. Ci vuole coraggio. Non si abbia paura di ricorrere, per fermare questo conflitto, a strumenti che qualcuno spregia come minimi o volgari, compromessi, rinvii sine die di soluzioni definitive, imposizioni dolorose. Il risultato, tenere in vita esseri umani, li rende sublimi.
Nell’immagine: la battaglia di Borodino (1812), vinta da Napoleone ma considerata dai russi una prova della forza morale dell’esercito guidato dal generale Kutuzov