Sgomberanti di sogni
Per provare a capire una gioventù chiamata “sbagliata, irresponsabile, immatura, superficiale, edonista, ribelle, viziata, sciocca, fragile, narcisista, violenta, brozzona, antagonista” - Di Lisa Monn
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Per provare a capire una gioventù chiamata “sbagliata, irresponsabile, immatura, superficiale, edonista, ribelle, viziata, sciocca, fragile, narcisista, violenta, brozzona, antagonista” - Di Lisa Monn
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Per provare a capire una gioventù chiamata “sbagliata, irresponsabile, immatura, superficiale, edonista, ribelle, viziata, sciocca, fragile, narcisista, violenta, brozzona, antagonista” - Di Lisa Monn
Nel raccontare, giudicare, descrivere le giovani e i giovani d’oggi ho sempre l’impressione di sbagliarmi, o di esercitare, impropriamente, un potere acquisito, col passaggio all’adultità, che mi suona falso, quasi spocchioso. Dal dilemma non se ne esce, poiché anche a volerne parlar bene, è quasi impossibile scardinare le rigide posizioni che prende il nostro cervello, lo schematico giudizio inconscio che attiva di riflesso le solite sinapsi; siamo tutti spinti a categorizzare, etichettare, definire, delimitare, cadendo nei cliché più logori che le e li riguardano. Ed ecco che allora una certa gioventù diventa velocemente sbagliata, irresponsabile, immatura, superficiale, edonista, ribelle, viziata, sciocca, fragile, narcisita, violenta, “brozzona” e, più recentemente, “antagonista”.
I pericoli conseguenti all’essere poco lucidi, vittime di un immaginario collettivo dominante e di questo filtro interpretativo quasi obbligato, stanno soprattutto nel fatto che le ragazze e i ragazzi si convincano di essere in un certo modo e che questo pregiudizio nei loro confronti nasconda uno strumento sociale di gestione delle soggettività che produce conformismo e malessere. Si assiste nel frattempo ad una continua e graduale patologizzazione e ad una veloce ed eccessiva medicalizzazione dei loro modi di fare e di pensare, che genera ansia ulteriore in coloro che stanno crescendo e impotenza o deresponsabilizzazione tra chi è già “cresciuto”.
La pandemia pare abbia esacerbato certi giudizi sulla gioventù, che certo si è confrontata con un’angoscia mortifera che raramente ha trovato un suo antidoto nelle nuove e incrementate forme dello stare insieme, del fare comunità, perlopiù dietro uno schermo. Abbiamo detto loro che le persone sono pericolose proprio quando era delle altre persono che avevano più bisogno.
Credo che l’incontro con la paura sia fondamentale, da attraversare, con le necessarie risorse interiori ma anche grazie a una società che fornisce delle risposte, delle risorse esterne, dei contesti propositivi di libertà di espressione, che riaccendano gli entusiasmi e che non rinchiudano lo sguardo in perimetri sempre più ristretti.
Vorrei dunque scrivere di un bisogno, di un desiderio che ho potuto osservare in questi ultimi anni, nei quali la possibile libertà di iniziativa e di incontro sembra essersi ridotta. Ho percepito un vuoto sociale e una forte mancanza di idealismo, accompagnata da rassegnazione, in seguito alla fine dell’esperienza del centro sociale autogestito, come luogo fisico d’incontro e di vita.
Il Molino non era un centro giovanile ma un luogo che stimolava lo scambio tra generazioni o meglio che assottigliava e rimescolava il concetto di “generazione”, andando oltre la categorizzazione legata alle età. A proposito dell’esperienza che è stata si è già scritto molto, mi interessava qui focalizzare lo sguardo sulla gioventù intesa come età di coloro che si affacciano timorosi sul mondo circostante, che escono dalle confortevoli (o meno) case e iniziano il loro percorso di scoperta.
Credo che il centro sociale autogestito rappresenti una via di senso per le giovani generazioni e che possa aiutare a crescere, a responsabilizzare, a smuovere dall’immobilità nella quale si desidera il più delle volte tenerle. Una prospettiva che necessita di un po’ di coraggio da parte degli spaventat* e un po’di fiducia da parte dei preoccupat*.
Sono molti di più di quanto si creda le giovani e i giovani che prima della pandemia avevano timidamente e con curiosità scoperto nella realtà dell’autogestione un bacino di meraviglia, nuove amicizie, nuove capacità e possibilità di dare un senso a ciò che un senso ce l’ha davvero, cioè lo stare insieme in un luogo percepito come casa, non quella in cui si dorme, ma quella speciale, la casa degli amici, la casa del fare, dell’apprendimento, dell’iniziativa, del valore.
Le proposte di un centro sociale autogestito creano dibattito su temi importanti come il razzismo, i popoli oppressi, la giustizia sociale, la giustizia ambientale; c’è scambio e vita nella partecipazione a questa esperienza di autonomia guardata ancora e sempre più con scetticismo e diffidenza; si possono incontrare delle figure amiche anche, che, tolto lo sguardo giudicante e moralizzante, sanno accogliere, consigliare, contenere.
A Lugano tutto questo non c’è più, il tentativo di tenerne accesa la fiamma è difficoltoso, l’intenzione distruttiva ha avuto il sopravvento. Immaginiamo come la minaccia di sgombero, l’invadente, violenta, ingiustificata azione di polizia, la distruzione gratuita di una parte di quell’esperienza costruita in anni di idealismo positivo, e la definitiva sigillatura di un luogo che è stato esperienza fondamentale per molt* ragazz*, sia stata sconvolgente e violenta, violenta tanto quanto le parole utilizzate ancora ultimamente dalle autorità. Quello che abbiamo vissuto è stato un oscuramento della luce delle idee, il crollo di una fiducia, insieme ai colorati muri, nei confronti del desiderio, della spinta di costruzione del sé, e che ha generato una frustrazione di molt*, una rabbia che si cova e si alimenta nell’odio e nei timori dimostrati.
Uno spazio autogestito (o più di uno) permette un’esperienza diversa da quelle che già esistono, diversa nelle modalità, nelle parole, nell’incontro, nell’esempio, nell’avventura che promette.
Come adult*, come istituzioni vogliamo e pensiamo di promuovere e di insegnare la capacità critica, la libertà di espressione propria della democrazia, crediamo in un’idea di libertà conquistata e necessaria per essere un po’ più felici ma poi nel concreto ne abbiamo paura.
Ci si lamenta spesso dell’isolamento delle giovani e dei giovani d’oggi, della loro svogliatezza. Ho il sospetto che la loro apatia, il loro cinismo sia solo lo specchio della nostra incapacità di leggerezza, della nostra ipocrisia in una consumistica società, dell’incapacità di tornare a sognare un mondo migliore.
Ci si può e ci si deve fidare a lasciare che ess* possano vivere un’esperienza che non sia strutturata dalle e dagli adult*, da loro guidata e nel peggiore dei casi da ess* manipolata, in un contesto in cui l’essere autonom*, lontan* dall’istituzionalizzazione continua delle esperienze di auto-organizzazione e dai contesti presidiati e sorvegliati, protegga anche dal pericoloso vivere in cui la sicurezza viene assunta a principale alibi subdolo per ottenere ciò che si vuole: il controllo.
Un tatuaggio sul petto di un giovane molinaro rappresenta un cancello, il grande cancello scricchiolante del CSOA (era po’ sghembo e non privo di fascino). Delimita uno spazio, è all’entrata del suo cuore. Un cancello che protegge, simbolo di resistenza alle brutture, agli sgomberanti di sogni. Lascia entrare ciò che gli piace, ciò che lo fa stare bene. In molti hanno la sensazione di aver perso qualcosa tra le macerie di quella notte. Hanno perso o sono stati temporaneamente privati di un accesso a qualcosa di importante per tutti: una speranza. Diamo loro uno spazio.
O che se lo prendano.
Nell’immagine: murale di Keith Haring
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