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• 3 Luglio 2021 – Redazione
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‘Lavoro e benessere sociale migliorano per tutti o per nessuno’

FONTI: UST – STATISTICA DEI FRONTALIERI (GGS), STATISTIK DER UNTERNEHMENSSTRUKTUR (STATENT) / INFOGRAFICA LAREGIONE

Sono più che raddoppiati dal 1996, ma secondo l’economista SUPSI Spartaco Greppi i problemi ticinesi nascono da annose fragilità. E il lavoro si difende per tutti o per nessuno.

Non è una sorpresa, ma fa riflettere: secondo gli ultimi calcoli dell’Ufficio federale di statistica, i frontalieri in Svizzera sono più che raddoppiati dal 1996 al 2020, arrivando a quota 343mila. 70mila sono impiegati in Ticino, dove costituiscono il 29% della forza lavoro (il tasso più alto in Svizzera, mentre in numero assoluto guida la classifica Ginevra con 90mila unità). La crescita è accelerata dopo l’entrata in vigore della libera circolazione nel 2002, ma va precisato che non erode direttamente il lavoro residente, perché nel frattempo è cresciuto anche il numero assoluto di posti di lavoro: in Ticino erano 180mila nel 1996 e ora sono oltre 230mila. Se demonizzare i frontalieri per le difficoltà dell’economia cantonale sa molto di capro espiatorio, è però vero che problemi e squilibri ci sono eccome. Ne parliamo con Spartaco Greppi, che alla Supsi è responsabile del Centro competenze lavoro, welfare e società.

Cominciamo dall’inizio: a cosa è dovuto un aumento così sensibile dei frontalieri?

Intanto, coincide con una crescita del mercato del lavoro: segno che bene o male l’economia ‘tira’. C’entra naturalmente anche la libera circolazione, che ha introdotto numerosi allentamenti normativi, incluso quello riguardante i lavoratori autonomi, fra i quali i cosiddetti ‘padroncini’. Poi assistiamo a una terziarizzazione ad alta intensità di lavoro, ma di un tipo che pretende di unire flessibilità, esperienza e retribuzioni relativamente basse: una domanda che trova in Lombardia un serbatoio ideale, mentre i giovani più formati dalle nostre scuole si spostano a loro volta verso impieghi tecnici altamente qualificati oltre Gottardo, come dimostrano le recenti statistiche sulla loro ‘fuga’. Lì un diverso tessuto produttivo premia non solo le loro competenze, ma anche quelle di frontalieri che in Svizzera tedesca – al contrario di quanto avviene in Ticino – guadagnano sostanzialmente quanto i residenti.

Da noi invece guadagnano il 30% in meno, in un quadro dove i salari mediani di alcuni settori stanno addirittura arretrando. Meglio chiudere le frontiere?

Abbiamo avuto un assaggio di cosa succede con le frontiere chiuse all’inizio della crisi pandemica, quando abbiamo vissuto settimane nel terrore che l’Italia precettasse i suoi infermieri. Più in generale, è del tutto irrealistico pensare che il Ticino, con la sua economia fortemente integrata in reti internazionali e ricca di export, possa ‘fare da sé’. Semmai si tratta di capire come superare certe fragilità che vengono da lontano, in una realtà che accanto ad alcune eccellenze vede ancora una forte dipendenza dalla manodopera a basso costo. In un certo senso bisognerebbe non superare, ma ripensare quell’elevata intensità di lavoro che ci contraddistingue.

In che senso?

Una forte presenza di lavoro qualificato può essere la chiave per lo sviluppo di quello che l’economista francese Robert Boyer chiama ‘modello antropogenetico’, centrato sui servizi dell’uomo all’uomo, sulle prestazioni sanitarie, sociali, culturali, formative. In un modello del genere, nel quale la produzione è quella di benessere e qualità della vita, anche i frontalieri possono giocare un ruolo importante, minimizzando allo stesso tempo le frizioni sociali che ancora si riscontrano.

Ma il frontaliere resta più appetibile se la tendenza è quella a un’economia dei lavoretti, nei quali ognuno è un po’ usa-e-getta. Che fare?

Sicuramente la precarizzazione è da combattere rafforzando le tutele del lavoro. Una lotta che però non può essere solo locale e per certi versi neppure nazionale: oggi bisogna puntare a maggiori tutele e diritti anche a livello europeo. Per cui ben venga il rafforzamento delle misure di accompagnamento (le garanzie di condizioni equivalenti a quelle locali per i lavoratori distaccati dall’estero, l’obbligatorietà dei contratti collettivi in casi di dumping ripetuto e i contratti normali che stabiliscono salari minimi obbligatori, ndr). Però non ci si può fermare lì: serve davvero uno sforzo concertato su fronti più ampi.

La libera circolazione ha contribuito a questa precarizzazione?

La libera circolazione ha avuto effetti molto positivi sulla crescita economica ticinese e svizzera, consolidando la partecipazione ai mercati continentali, incidendo anche sull’acquisizione e la ridistribuzione di gettito fiscale. Però è coincisa con un periodo di intensa globalizzazione e si è innestata sulla ritirata dello Stato dall’economia, penso alle ex regie federali o al settore militare che garantivano una certa sicurezza economica al Ticino. Nel frattempo si è scelto di attrarre imprese non sempre sostenibili, un’economia dei capannoni con dubbie ricadute sul territorio. Anche per questo occorre sicuramente un ripensamento del nostro modello di sviluppo.

Le difficoltà degli ultimi anni hanno generato una certa nostalgia nei confronti di una presunta età dell’oro: quei ‘Trente glorieuses’ nei quali sicurezza economica e protezione sociale parevano al loro apice. C’è chi vorrebbe tornare lì.

Questa è una di quelle che Zygmunt Bauman chiamava retrotopie: utopie rivolte all’indietro, verso epoche rappresentate in maniera molto idealizzata, ma proprio per questo efficaci dal punto di vista politico. Indietro, però, non si può tornare: l’economia di oggi, con la sua dimensione globale e il suo sviluppo tecnologico che trasforma rapidamente e radicalmente il lavoro, non può essere gestita con formule di mezzo secolo fa. Questo vale per l’approccio alla mobilità del lavoro, ma anche al welfare.

C’è però ancora il mito del bel Ticino d’una volta, quello dove i contadini diventavano banchieri e i soldi crescevano sugli alberi.

Un mito, appunto. Il fortissimo sviluppo degli anni 60 e 70 ha creato grandi scompensi, il passaggio dall’agricoltura alla finanza ha bypassato quasi del tutto la formazione di una solida dimensione industriale, lo sfruttamento del lavoro frontaliero era ai limiti della segregazione, con i ticinesi in banca o alle regie pubbliche e gli stranieri nelle posizioni più umili. La crescita economica diffusa nascondeva gli scompensi del sistema, proprio quelli che oggi vengono a galla. Più importante sarebbe allora guardare avanti, senza chiusure, capendo che lavoro e benessere sociale migliorano per tutti o per nessuno, a seconda delle scelte che si fanno per incentivarli e tutelarli. Prendersela coi frontalieri è solo un diversivo.

Per gentile concessione de laRegione






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