Se il mare inghiotte i miliardari
Perché la tragedia del Titan smuove i giornali molto più dell'ecatombe dei profughi nel Mediterraneo
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Perché la tragedia del Titan smuove i giornali molto più dell'ecatombe dei profughi nel Mediterraneo
Ogni vita conta. Ogni singola esistenza ha un valore. Se l’abisso ha inghiottito per sempre i cinque passeggeri del Titan non è possibile, per chi condivide lo stesso concetto di umanità, provare per loro altro che pietà. Lo dice con parole chiare Cecilia Strada, che conosce le storie, la paura e la morte dei disperati che prendono il mare: «I distinguo sulla vita umana, da qualunque parte vengano mi lasciano tramortita. Il punto non è “che vergogna i salvataggi per i miliardari, con tutti i migranti che muoiono!”. Il punto è “salviamo i miliardari. E salviamo i poveri”. Ma è questo “doppio standard” che fa esplodere il dibattito sul palco dei social, trascinando la tragedia del sommergibile dall’oscurità gelida dell’Atlantico alla ribalta dei trending topic su Twitter. La sintesi più scabra è questa: «Cinque ricchi in un sommergibile sono una storia. Centinaia di poveri migranti nel Mediterraneo sono una statistica».
È una questione di pietas, ma anche di una comunicazione mainstream che mastica racconti e li offre in pasto al pubblico esattamente come il mare si prende i corpi e li divora per non restituirli mai più. Parla, suscitando polemiche a destra, la segretaria del Pd Elly Schlein: «Spero che riusciranno a soccorrere le persone del sommergibile. Ma fa impressione il dispiegamento di forze messo in campo nella ricerca. Mentre trovo inaccettabile e ingiusto che nessuno abbia mosso un dito per salvare 750 migranti» dice riferendosi alla strage del 14 giugno a sud-ovest di Pylos, a largo del Peloponneso. Si esprime con durezza, durante una visita ad Atene, l’ex presidente americano Barack Obama: «È in corso una potenziale tragedia con un sommergibile che sta ricevendo una copertura mediatica minuto per minuto in tutto il mondo, e tutti noi preghiamo perché quelle persone vengano salvate. Ma il fatto che abbia ottenuto più attenzione delle 700 persone morte annegate è una situazione inaccettabile». Questo è il nodo, non il cinismo di chi punta il dito contro «l’arroganza dei ricchi»: se le vittime delle due distinte tragedie, davanti al pericolo estremo, siano considerate uguali o no. Queste sono le domande: perché il dispiegamento di forze messo in campo per la ricerca dei viaggiatori del Titan non viene attivato per soccorrere tutti coloro che attraversano il mare su vecchie carrette e su gommoni sgonfi sperando che qualcuno arrivi a salvarli; perché troppi allarmi ignorati; perché nessuna risposta a chi nel buio spaventoso del Mediterraneo chi chiede aiuto, «o sarà l’ultima notte».
Sarebbe ipocrita non ammettere che la storia dell’ultimo viaggio del Titan, ritrovato a pezzi accanto allo scheletro gigantesco del Titanic, con tutta la sua forza evocativa, non ci affascini: perché contiene in sé tutti gli elementi della sfida estrema dell’uomo alla natura e dell’avventura, con i rischi (che qualcuno chiama stupidità e qualcun altro follia) che questo comporta.
Ma davanti alle vite in pericolo, tutte, esiste un unico confine, che è appunto quello dell’appartenenza comune al genere umano. «Non dobbiamo mai accettare che sia messa in discussione in nessuna occasione l’umanissima e responsabile legge del mare, regola di umanità per cui chiunque stia in pericolo sia salvato e custodito. È in pericolo. Si salva» ha ricordato ieri a tutti il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei. Non può esserci altra regola, che conosciamo o meno i volti dei naufraghi, le loro storie. Che sia un esploratore miliardario, o un artigiano in fuga dalla Siria. È un delitto pesare le anime.
Nell’immagine: il Titan in immersione
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