Seguire il sole
Disagio giovanile: so ciò che vedo, che non è molto, eppure è sufficiente per spaventarmi
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Disagio giovanile: so ciò che vedo, che non è molto, eppure è sufficiente per spaventarmi
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Disagio giovanile: so ciò che vedo, che non è molto, eppure è sufficiente per spaventarmi
E allora assisto, da ormai due anni, alle intermittenze del pensiero, ai continui cambiamenti di scenario, alle misure che di volta in volta vengono decise dalle autorità competenti con lo sbalordimento di chi è costretto a fidarsi di qualcuno o qualcosa.
Eppure, in questo periodo fatto di plastiche azzurre o colorate, di tamponi e di detergenti, continuo a pensare che la querelle intorno ai vaccini stia rubando tempo ed energie a questioni di urgente sostanza. In molti, troppi ambiti. Uno su tutti l’ecologia. Uno su tutti il disagio giovanile.
Qualche sera fa, transitando davanti a un televisore sintonizzato sull’ennesimo dibattito da Covid, sono stato trafitto da una frase perentoria, e non contraddetta, di Umberto Galimberti. “Questi giovani sono deboli”, ha detto, e “la pandemia sta soltanto rilevando una fragilità endemica, fatta di ansie, crisi di panico, vita vissuta in video”. Ancora tante “v”.
Io non so risolvere spiritualmente la controversia se il sole da seguire sia quello naturale, l’astro che mena diritto altrui per ogni calle, oppure se dobbiamo un’altra volta fidarci del sole della Ragione, della logica scientifica dunque.
So ciò che vedo. Che non è molto. Eppure è sufficiente per spaventarmi. Vedo che i movimenti di difesa del clima hanno meno voce, meno diritto di essere negli spazi informativi, ma forse anche nei nostri pensieri. Oltre che nelle agende politiche. Un po’ come capita in “Don’t look up”, film in cui l’umanità, pur di rendere tutto piacevole e frizzante, rinuncia ad assecondare il proprio istinto di sopravvivenza. Come a dire che il tema vaccini, cure intense, ricoveri, rischia di diventare un enorme gioco narcisistico di chi si ostina a guardare il dito per non vedere una luna grigia e ammorbata.
Vedo che il disagio giovanile c’è e non si spiega. Non lo risolveremo né se li vaccineremo tutti né se non lo faremo, perché mentre gli adulti si scannano parlando di bavagli e mascherine protettive, molti di loro si augurano che le vacanze durino di più; perché svegliarsi, vestirsi, viaggiare, vivere la propria giovinezza deve avere uno scopo e un valore. E forse non tutti lo avvertono. Marco Lodoli lo denunciava già trent’anni fa circa (Se i nostri ragazzi non sanno più soffrire, La Repubblica), e oggi lo noto con ancora maggiore urgenza: c’è poca disobbedienza tra i banchi delle scuole e forse anche tra le mura domestiche. Forse è indifferenza, forse debolezza, disagio, apatia. Incapacità di soffrire. La peggiore delle ipotesi è che le ragioni non siano solo in loro, ma che valga ancora il solito metodo, ovvero che i giovani siano lo specchio di ciò che gli adulti hanno edificato. E allora, forse, la mascherina che devono indossare per andare a scuola e che così facilmente sembra somigliare a un bavaglio, la stanno indossando da molto tempo. Traducendo l’incertezza in colpa. Ne conosco tanti, forse troppi, che richiedono aiuti psicologici, che si recano dall’orientatore professionale, mostrando di nutrire, oltre al disagio, anche una stranissima fiducia nel mondo degli adulti. Una fiducia che non so quanto sia ben riposta.
Nominare il caos, ne sono certo, sarebbe utile. Porterebbe alla coscienza una specie di verità, un rapporto con la vita che non può, io credo, ridursi e risolversi nel diritto alla salute.
Un’indagine di cui si è parlato ultimamente alla Rsi sostiene come, nei momenti di maggiore crisi pandemica, i giovani abbiano beneficiato della chiusura delle scuole o delle lezioni ritardate perché in media hanno dormito un’ora in più. L’ansia si diluiva, allora, svegliarsi con il sole aiutava anche a sopportare la mascherina. Non solo il fardello di chi non sa se fra vent’anni avrà un’aria da respirare, un lavoro, prima ancora che una vita soddisfacente.
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