Siria, anniversario di una guerra non finita
10 anni dopo l'inizio, una tragedia che non interessa più il mondo
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
10 anni dopo l'inizio, una tragedia che non interessa più il mondo
• – Aldo Sofia
• – Franco Cavani
I cittadini bernesi hanno respinto più volte i tentativi di chiusura del più noto centro autonomo
• – Daniele Piazza
Troppa poesia online? Meglio leggerla che giudicarla in modo affrettato
• – Enrico Lombardi
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan li chiama terroristi, senza troppi giri di parole. Secondo il ministro degli interni Süleiman Soylu sono invece dei pervertiti. Si...
• – Redazione
Intervista al dott. Giovan Maria Zanini, farmacista cantonale
• – Aldo Sofia
Test sì ma forse, vaccini in ritardo, aerosol non pervenuti. E i contagi aumentano
• – Riccardo Fanciola
Quando esci la sera devi avere le scarpe giuste. Devono essere adatte per scappare
• – Simona Sala
• – Franco Cavani
Santesuisse usa l'artiglieria pesante contro la riduzione delle riserve (e dei premi)
• – Fabrizio Triulzi
10 anni dopo l'inizio, una tragedia che non interessa più il mondo
Gli anniversari, quando si tratta di guerre, ricordano cifre spaventose, ma raramente angosce e paure e supplizi individuali. È così anche per la Siria (quasi 400 mila vite spezzate), e il ricordo di una tragedia che cominciò dieci anni fa. In realtà, più dei morti bisognerebbe ricordare i vivi: gli innumerevoli feriti, i mutilati, i traumi infiniti, i bambini bloccati nella memoria degli orrori visti o subiti, gli 11 milioni di profughi interni ed esterni fuggiti nella precarietà e nella miseria per sottrarsi alle armi chimiche, alle bombe al fosforo, agli ordigni lanciati con accurata e criminale precisione su ospedali e scuole, alla fame degli impietosi assedi, al rischio di diventare ostaggi civili (oltre che bersagli) di una guerra per bande. Attentati, rappresaglie, torture. L’epilogo più spaventoso fra quelli che conobbero nello scorso decennio le diverse, sfortunate e contraddittorie “primavere arabe”.
Che questo sarebbe stato lo spaventoso finale sul teatro siriano era tutto sommato prevedibile. Ma c’era un giovane dittatore, Bachar, buoni studi in Gran Bretagna, dentista di professione, una moglie inglese, qualche promessa riformista, al potere quasi per caso (dopo la morte del fratello maggiore, il vero ‘erede guerriero’), e inizialmente manifestazioni anti-regime ma pacifiche. Si poteva sperare, ragionevolmente. Ma un Assad è un Assad. Il simbolo del potere di una minoranza (alauita) puntellata da altre minoranze (cristiani, drusi). Disposta a tutto per sopravvivere. E sarebbe bastato ricordare con quale ferocia il padre Hafiz (il “leone di Damasco”) nei primi anni Ottanta aveva liquidato la rivolta nella città di Hama: dalle 10 alle 15 mila vittime in sole 48 ore.
Poi, per come si era messa la guerra civile, feci una previsione sbagliata. O in parte sbagliata. Scrissi che Assad figlio non sarebbe più stato il padrone della Siria. È ancora al potere. Ma è un potere che si regge sulla stampella degli interessi della Russia di Putin (con aiuti, armi, soldati, cacciabombardieri) intenzionata ad arrivare in forze nei “mari caldi”, e sulla stampella dell’Iran sciita (gli alauiti sono una componente dello sciismo) che inviò migliaia di mercenari e che puntava alla creazione di una “mezza luna” territoriale sotto il controllo degli ayatollah (da damasco, all’Irak, alla Siria, a parte del Libano, a Gaza). E fu facile, per il “rais”, convincere l’Occidente del fatto che lui, l’Assad di ogni nefandezza, fosse anche il miglior baluardo contro quell’islam (o presunto tale) che cominciò a insanguinare le capitali europee.
Così, quel conflitto diventò inevitabilmente anche una guerra per procura, combattuta per gli interessi di potenze internazionali e regionali. Tutti dentro. Oltre alla Russia anche un po’ di America obamiana. E poi Israele (milizie iraniane troppo a ridosso dei suoi confini), l’Arabia saudita (in funzione anti-iraniana), e la Turchia di Erdogan (con la sua nuova strategia di espansione neo-ottomana). Americani ed occidentali schierati, fra troppe esitazioni, al fianco di un effimero “Libero esercito di liberazione”; sauditi e turchi capaci, più tardi, di supportare persino i tagliagole dell’ISIS, quindi quello Stato islamico che si era inventato un proprio Califfato (tra Irak e Siria) convinto di poter addirittura cancellare i confini imposti dal colonialismo franco-inglese dopo il collasso dell’impero ottomano.
Un corpo a corpo, una bagarre di dimensioni epiche, un enorme “buco nero” in cui si consumeranno altri giochi politici e altre tragedie comunitarie: che si pensi alle comunità yazide (e alle loro donne fatte schiave dai jihadisti), oppure ai curdi di Siria, prima protagonisti della coraggiosa controffensiva anti-Isis (gli unici che davvero combatterono sul terreno), e poi vilmente traditi dagli Stati Uniti di Trump, che li abbandonò dove stanno ancora, esposti all’occupazione e alle vendette della Turchia , in coabitazione con le truppe del Cremlino.
Ricordiamo perciò il decennale di una guerra che in realtà non è affatto finita. Anche se non è più narrata. Anche se oggi non interessa. E ci fa molto comodo che sia così. Dimenticando che spesso la Storia ci ripresenta il conto. Anche nel peggiore dei modi.
Quando misure e strategie economiche sono assolutamente legali, ma socialmente negative
La sottile arte di celare la propria identità quando si vuol pungere e criticare