Taiwan, i vantaggi dell’ambiguità
Dopo l’attesissimo voto e l’affermazione del partito democratico nulla cambia nella sostanza: per Usa e Cina l’isola rimane il nodo più rischioso per le loro relazioni, e per il pianeta
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Dopo tre quarti di secolo, Taiwan è invece trasformata in “punto potenzialmente più pericoloso del pianeta”. Minacciosa intersecazione fra i due colossi mondiali, Cina e Stati Uniti. Con l’America che ne ha fatto, per interesse strategico ed economico, la sentinella più avanzata del suo sistema di alleanze nell’Indo-Pacifico; e con l’Impero di Mezzo” che ne ha costantemente rivendicato l’appartenenza per suggellare il suo status di potenza globale, più che mai dopo l’arrivo di Xi Jinping alla guida dello Stato-Partito.
Così, mentre sullo scacchiere internazionale sono già in atto due conflitti che minacciano di esondare (Ucraina e Medio Oriente), la consultazione elettorale di sabato nell’isola ha cristallizzato un interesse senza precedenti. Con esito chiaro. Per l’Occidente, certo che la vittoria nella corsa presidenziale di William Lai, del DPP, d’orientamento liberal-progressista, partito che si impone per la terza volta consecutiva, è uno schiaffo a Pechino nonché l’ulteriore consacrazione di un’indipendenza e di una democrazia a cui Taiwan non intende rinunciare; per altri, invece, il fatto che il neo capo dello Stato non abbia la maggioranza in parlamento, grazie alla relativa tenuta del Kuomintang (erede dei nazionalisti di Chang Kai-Shek) relativizza l’irritazione della Cina, che durante la campagna elettorale (con dichiarazioni categoriche e pressanti esercitazioni militari nello Stretto) ha insistito sulla “riunificazione ineluttabile”. I progressisti vittoriosi e del tutto ermetici nei confronti di Pechino, i nazionalisti sconfitti più favorevoli al dialogo con la madre-patria. È la rappresentazione che ne ha dato la stampa internazionale. Davvero assai sommaria.
La realtà è invece che nessuna delle formazioni politiche di Taiwan auspica o ipotizza l’annessione alla Cina. Nemmeno il Kuomintang, democratizzatosi dal 1996, anche a costo di perdere il potere. Eludere questa verità ha forse vivacizzato ma distorto il significato del voto. In effetti si protrarranno i paradossi della crisi simboleggiata da Formosa. In primis, il doppio gioco americano. Gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto Taiwan come stato indipendente. L’hanno anzi inserita, pur aiutandola e armandola, nella logica di “una sola Cina con due sistemi” (un’altra Hong Kong, per intenderci, con rischi annessi). A urne chiuse, la Casa Bianca ha ribadito il non riconoscimento. È la “politica dell’ambiguità”, come la definiscono senza imbarazzo anche a Washington. Frutto anche della passata convinzione che il galoppante sviluppo economico (col coinvolgimento cinese nell’economia globale) avrebbe indotto un cambiamento politico interno favorevole al pacifico snodo anche della questione taiwanese. Un’illusione. Al vertice di San Francisco Biden e Xi hanno riallacciato il dialogo. Ma la Cina rimane il principale competitore “sistemico”. E Taiwan continuerà ad affidare il suo futuro a un’ambiguità politica in cui, finché dura, l’Ovest ha tutto da guadagnare: sia per l’alleanza geostrategica con la “sentinella avanzata Taiwan”, sia perché “l’isola che non c’era”, è un pivot economico, e oggi vende al mondo (Cina compresa) il 90 per cento dei semiconduttori più avanzati. Indispensabili all’economia tecnologica e globalizzata.
Scritto per laRegione
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