Di Michele Serra, La Repubblica
C’era molta moquette. Si entrò negli anni ’80 camminando su ettari di moquette. In via Rovani, sede della Fininvest, era ovunque. L’Italia delle strade, dei cortei, delle fabbriche stava mutando pelle, il nuovo aziendalismo (che dieci anni dopo sarebbe diventato attore politico diretto, grazie al partito-azienda) prometteva agli italiani di camminare sul morbido, più soldi e meno pensieri, meno ansie pubbliche e più affari privati, meno impegno e più divertimento. Cominciava il cosiddetto riflusso: eufemismo quasi malinconico per indicare quella che invece si sarebbe rivelata una rivoluzione in piena regola.
Silvio Berlusconi era gentilissimo. Giovane, capelli lunghetti sulla nuca e calvizie solo incipiente, aveva un sorriso per tutti, anche per l’ultimo arrivato tra i cronisti, che ero io. Mai visto nessuno sorridere tanto. Presentava di persona, con entusiasmo quasi infantile, Dallas, le telenovelas e i palinsesti del suo impero nascente, prima Canale 5 (ex Telemilano), poi Italia 1 (nell’82) e Rete Quattro (nell’84). Le vecchie leggi sul monopolio pubblico delle telecomunicazioni furono violate con caparbietà, una dopo l’altra, dal nuovo monopolio privato delle telecomunicazioni, che nel frattempo aveva cancellato dal mercato ogni possibile concorrenza, o fagocitandola o distruggendola per il grande squilibrio della potenza di fuoco.
Era il preludio perfetto dell’epoca che bussava alle porte, quella delle liberalizzazioni, del liberismo, della Casa della Libertà, con la parola libertà, e derivati, usata molto impropriamente come sinonimo di deregulation, e se vogliamo dirla come al bar, di “comodi propri”. Il privato riuscì a mettere nell’angolo il pubblico per almeno tre decenni, e lo fece anche in virtù di un fortissimo sostegno politico e mediatico, la cui sintesi è che il privato è moderno e dinamico, il pubblico è decrepito e soffocante.
Era come voler fermare il mare con un rastrello, nuove tecnologie e nuovi mercati schiantavano paletti piantati trent’anni prima, come il monopolio di Stato e il divieto di trasmettere su scala nazionale. Il vecchio paternalismo di Stato stava per essere deposto dal nuovo paternalismo pubblicitario/mercantile, consuma e non farti troppe domande, vedrai che ti troverai bene, ce n’è per tutti.
Di lui si sapeva che aveva fatto molti soldi con l’edilizia, e molto in fretta. Così in fretta che negli anni a venire la sua fortuna sarà oggetto di inchieste giudiziarie e giornalistiche, nessuna delle quali potrà mai toccare la sintesi (poetica, ma efficacissima) della celebre scena del Caimano: una valigia piena di quattrini che piove dal cielo sopra la scrivania di Berlusconi. Ma a via Rovani c’era la moquette, e il tonfo della valigia sarebbe stato ottimamente attutito. Il nome di Dell’Utri ancora non circolava, si era tutti lì per JR e Sue Ellen, si ridacchiava, tra giornalisti, della pacchianeria complessiva, a noi giovani milanesi da cinema d’essai e da Piccolo Teatro la televisione di Berlusconi pareva un’estensione di certe soirées teatrali al Manzoni o al San Babila, con i cumenda in sciarpa bianca che regalano i fiori alla soubrette.
Ci avessero detto, nel 1980, che quelle adunate sulla moquette (noi giornalisti ancora vestiti molto casual, anni Settanta, “loro” tutti in uniforme aziendale, abito blu e cravatta, un esercito in marcia) erano il preludio di una nuova egemonia culturale, di nuove gerarchie economiche, infine di una vera e propria presa del potere, non ci avremmo mai creduto. Non avevamo capito niente (io, almeno) ma non era facile, di fronte a un cordiale venditore di serie americane che arrivavano da noi con un paio d’anni di ritardo, come se le videocassette avessero viaggiato con il bastimento, fiutare un così drastico cambio d’epoca.
Lui invece lo aveva fiutato. Il denaro come arma finale, la pubblicità come linguaggio onnicomprensivo (vincente anche in politica), il cittadino che diventa in forma definitiva (ideologica, ma senza dirlo, senza saperlo) consumatore e cliente. “Il pubblico ragiona come un bambino di otto anni”, diceva alle convention dei venditori Publitalia, ed è la sua frase definitiva. Sta a Berlusconi come “eppur si muove” a Galileo. Dentro c’è tutto, compreso il suo successivo trionfo politico. Anche il potere è un prodotto, basta saperlo vendere.
A proposito di denaro come arma finale, era frequente che Berlusconi chiedesse (o facesse chiedere) ai giornalisti che scrivevano di lui, e soprattutto a quelli che ne scrivevano male, “venga a lavorare con noi, si troverà bene”. Il metodo, apparentemente rozzo, si rivelò invece efficacissimo in molti ambiti, e con molti interlocutori. Dalle vecchie star della Rai arruolate triplicando il compenso (Mike Bongiorno diceva: decuplicandolo) al Milan stellare assemblato facendo saltare qualunque calmiere nell’acquisto e negli ingaggi dei giocatori. Rilanciare, rilanciare sempre, ce n’è per tutti. Come nel Paese dei Balocchi.
L’uomo di via Rovani fece molta strada ed ebbe molta fortuna. Diventò per qualche anno il capo degli italiani, attività che svolse piuttosto svogliatamente, quasi come un titolo onorifico, badando soprattutto a sistemare le leggi in modo che non gli impicciassero troppo. La politica non era il suo mestiere eppure è riuscito a vincere tre o quattro elezioni, circostanza che illustra soprattutto la debolezza dei suoi oppositori. Il problema è che io resto convinto, quarant’anni dopo, che il cinema d’essai fosse molto meglio di Dallas, e a ben vedere, a di- spetto dei luoghi comuni sulla Potëmkin: che fosse molto più divertente di Dallas. Ma eviden- temente sono riuscito a spiegarlo solo a me stesso.
Nell’immagine: Emanuele Luzzati, “Pinocchio nel Paese dei balocchi”