Olmo Cerri – ‘Testate’, giornalisti e realtà antagoniste
Riferire, raccontare, documentare, fra disponibilità, sfiducia e regole professionali
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Riferire, raccontare, documentare, fra disponibilità, sfiducia e regole professionali
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Riferire, raccontare, documentare, fra disponibilità, sfiducia e regole professionali
Il comunicato dell’Atg
Nel pomeriggio di domenica 6 giugno 2021 l’Atg (Associazione Ticinese dei Giornalisti) dirama un comunicato, ripreso da varie testate in cui chiede “rispetto per il lavoro dei giornalisti“(lo linko qui sul sito de ”l’Osservatore”). Il comunicato si apre con questa dichiarazione: “l’Associazione ticinese dei giornalisti ha raccolto diverse segnalazioni da parte dei colleghi che hanno seguito la manifestazione a Lugano dove emergono diversi fatti legati alle ben note vicende dell’ex Macello che evidenziano come in una parte – di certo minoritaria – degli autogestiti ci sia un atteggiamento intimidatorio nei confronti di chi sta facendo semplicemente il proprio lavoro.” Senza fare di ogni erba un fascio, e con i giusti distinguo, l’Atg denuncia diversi episodi in cui alcune persone da loro identificate come vicine al CSOA hanno chiesto a dei giornalisti, con forme comunicative diverse, di non essere filmate. Inoltre si denuncia la difficoltà di trovare persone disposte a farsi intervistare, un aspetto che rende il lavoro dei giornalisti ancora più difficoltoso.
A questo comunicato hanno dato ampio risalto, con le dovute precisazioni, praticamente tutti i media locali, ed è probabilmente giusto così. La libertà di stampa è una cosa fragile e preziosa. Ancora meglio quando non ci si limita a riportare un comunicato stampa ma si cerca di fare qualche domanda supplementare, tentare un’analisi e proporre una riflessione supplementare: non sarebbe questo il compito del giornalismo?
Il diritto di non farsi filmare
Filmare in luogo pubblico ha le sue regole, cito soltanto alcune linee guida dell’incaricato federale per la protezione della privacy :”Le persone ritratte decidono di norma se e in quale forma una fotografia possa essere scattata e pubblicata. Ecco perché nella maggior parte dei casi le fotografie possono essere pubblicate soltanto se le persone ritratte vi hanno acconsentito“; anche in caso di manifestazioni vale lo stesso principio: “Anche nel caso di fotografie che ritraggono gruppi di persone i diritti della personalità dei singoli interessati possono essere a rischio, cioè qualora le persone siano riconoscibili nell’immagine“. Naturalmente ci sono delle eccezioni che è importante ricordare e far valere quando necessario: “Si può rinunciare al consenso (…) soltanto se un interesse pubblico o privato preponderante giustifica la pubblicazione“. Si può quindi fotografare e filmare contro la volontà del singolo ma deve trattarsi di un caso eccezionale, di comprovato interesse pubblico o privato preponderante. Fatta questa eccezione, la richiesta di non essere inquadrati in maniera riconoscibile, troppo da vicino o in primo piano è quindi più che legittima e deve essere sempre accolta. Il racconto mediatico di una manifestazione può essere fatto in modi diversi, per esempio filmando soltanto le tante persone che hanno piacere a farsi filmare, inquadrando le persone di spalle, riprendendo le gambe, filmando da lontano.
I motivi per non farsi filmare
Una persona può avere molte ragioni per voler essere presente a un corteo ( che sia in sostegno dell’autogestione come di altre cause) ma anche per non volere che la propria immagine venga ripresa, registrata, trasmessa e archiviata. Cito le prime che mi vengono in mente: discriminazioni sul posto di lavoro (sono molto reali ancora oggi, in particolare per chi lavora in alcuni ambiti), in famiglia (giovani che partecipano alle manifestazioni contro la volontà dei genitori), paura di ripercussioni di vario genere (stranieri senza permesso, persone in attesa di cittadinanza) e persone che temono per la propria incolumità fisica (specie nei casi di situazioni “a rischio”, con possibili tensioni). E, non da ultimo, può valere anche una posizione di principio, come si legge nel comunicato del Molino dell’11 giugno: “In questa società della sorveglianza, l’idea che non si voglia essere ripres* a ogni istante per molt* è inconcepibile.”
L’inutilità e la dannosità degli streaming dal corteo
Alla manifestazione di sabato 5 giugno sono state organizzate e realizzate diverse dirette streaming proposte dai principali media cantonali. Qual è il valore aggiunto informativo di questi contenuti? Nessuno.
Il giornalista non ha possibilità di montare e dare un senso logico a ciò che filma, segue gli eventi senza poter intervenire proponendo un racconto per immagini solo apparentemente più oggettivo e neutrale. Lo spettatore si trova davanti ad un flusso a cui fatica a dare senso. E ancora: il giornalista, vista l’istantaneità del mezzo, non è in grado, anche volendo, di proteggere persone che non possono, non vogliono o non devono essere filmate. La protezione della privacy va a farsi benedire. Inoltre queste pratiche di streaming generano un flusso continuo di immagini a disposizione di tutti, anche – è facile immaginarlo – della polizia, che si trova con un nuovo strumento per identificare i manifestanti.
La delicata situazione del giornalismo in Ticino
In questi ultimi mesi, il giornalismo in Ticino, ha subito alcuni scossoni che hanno contribuito a incrinare la fiducia di una parte della popolazione nei confronti di stampa e informazione. Penso per esempio alla convenzione sottoscritta fra RSI e Consiglio di Stato, inerente la messa a disposizione di giornalisti per lo Stato Maggiore Cantonale di Condotta, o alla concentrazione di potere mediatico presso un solo gruppo, in mano a poche famiglie, con la relativa perdita di biodiversità informativa; il tutto mentre portali e portalini, non si sa bene finanziati da chi, creano cortine fumogene e indirizzano la discussione pubblica.
Le realtà antagoniste poi, hanno avuto spesso problemi con alcuni giornalisti e alcune testate: dagli editoriali del Corriere del Ticino, al “brozzoni” urlato dalle pagine del Mattino, gli esempi potrebbero essere ancora molti. Ho incontrato in questo periodo alcuni partecipanti al “Cantiere della gioventù” che si tenne a Locarno nel 1971 e in cui si iniziava a rivendicare un “centro per il tempo libero”. I militanti di allora ricordano bene che la stampa li definiva come “violenti e drogati”. I rapporti difficili fra giornalisti e antagonismo si perdono nella notte dei tempi, anche perché a volte certi media sono visti come funzionali al “sistema” e parte del problema da combattere. Il dialogo è quindi difficile, ma non credo impossibile.
Testate
Prendiamo solo un esempio fra quelli citati nel comunicato Atg: la testata ricevuta lo scorso 30 ottobre da una giornalista de laRegione che stava documentando lo svolgersi di una manifestazione. Non so se sia davvero necessario ribadirlo, ma è stato un brutto gesto, giustamente denunciato e condannato. Va però anche ricordato che si è trattato di un gesto isolato, che non fa parte delle modalità di lotta e di comunicazione del Molino, e non è certo espressione di una scelta assembleare condivisa. C’è sempre una componente di responsabilità individuale in questi gesti, infatti la persona che lo ha compiuto, ne risponde oggi davanti alle autorità.
Mi pare però che questa testata continui a esser citata come prova indiscussa dell’indole violenta dei molinari. La stessa giornalista coinvolta, in un pezzo pubblicato l’indomani raccontava: “Un membro dell’assemblea del centro sociale (…) mi ha chiesto prima che me ne andassi cosa fosse successo, dispiacendosi per il fatto che per qualche persona problematica l’immagine di tutto il gruppo venga stravolta“. Eppure da quel giorno la narrazione che vuole una “nuova escalation di violenza” è ufficialmente partita. Rapido Generoso Chiaradonna, membro di comitato dell’Atg, in un commento su LaRegione scriveva: “gesto grave e che trasforma quei quattro figli di papà che giocano a fare i proletari in fascisti patentati.”
Più recentemente, il dibattito sulle scritte sui muri della città, lasciate da alcuni partecipanti durante il corteo del 5 giugno, è parte di questa narrazione.
Nella sua comunicazione il CSOA ha sempre cercato di evitare la pericolosa retorica degli autogestiti “bravi e pacifici” contro gli autogestiti “cattivi e violenti”. Le realtà autogestite sono esperienze sfumate e complesse.
Se non riesci a filmarli, fai autocritica!
Cito un altro passaggio del comunicato dell’Atg su cui vorrei riflettere: “È impossibile realizzare interviste con qualcuno che si esprima a nome dei Molinari. Questo è decisamente un ostacolo e un condizionamento, anche democratico: porre domande fa parte del ruolo del giornalista ed è un elemento fondamentale dell’informazione rivolta all’opinione pubblica.”
Si tratta di una affermazione errata: non è vero che sia esclusa la possibilità di fare domande o trovare degli interlocutori all’interno delle realtà antagoniste. Sono parecchi gli esempi (anche negli ultimi giorni) in cui persone vicine e direttamente coinvolte nell’autogestione hanno rilasciato interviste a titolo personale, sono stati ospiti di programmi radiofonici e televisivi (“Modem”,31.5.21, Rete Uno, “Moby Dick”, 5.6.21, Rete Due RSI e molti altri). È chiaro che per ottenere questi contatti è necessario uscire dalla comfort-zone del giornalismo embedded: se si desidera raccontare una manifestazione dall’interno, bisogna essere in grado di farlo e prendersi il tempo necessario. Non basta presentarsi a telecamera accesa e microfono sguainato per ottenere delle risposte utili. Come in tutti gli ambienti occorre adattare le proprie modalità di lavoro al contesto, coltivare i rapporti e guadagnarsi la fiducia degli interlocutori garantendo non tanto il sostegno acritico alla causa, ma professionalità e onestà intellettuale. Se un giornalista non riesce a mettere in campo questi strumenti, che dovrebbero essere parte del suo bagaglio professionale, deve fare autocritica.
Il CSOA non ha un ufficio stampa e non ha degli addetti alla comunicazione. La voce del Molino è la sua assemblea, ed è l’assemblea che (se e quando lo ritiene opportuno) indica dei portavoce, scrive e firma comunicati e persino (come è successo più volte nel corso della storia) indice delle conferenze stampa. È l’assemblea che decide come e quando appoggiarsi ai media e non viceversa. E negli anni ha sempre seguito questa linea.
Pratiche comunicative diverse
Mi pare lecito e legittimo aspettarsi che, con la stessa veemenza messa nel comunicato contro gli autogestiti, l’Atg si rivolga anche alle istituzioni che, da giorni, non rispondono in maniera trasparente alle domande dei giornalisti, rifiutano interviste, cambiano versioni, si contraddicono e – da ultimo – si trincerano dietro all’impossibilità di dare risposte a causa dell’inchiesta in corso. Arrivano persino a rilasciare dichiarazioni infastidite verso giornalisti che, come necessario, pongono domande lecite: “Il silenzio rimane tale fintanto che il Governo deciderà sulle risposte” afferma il direttore del Dipartimento delle istituzioni, e aggiunge “i sospetti qualcuno li alimenta, politicamente e mediaticamente”.
Le autorità sono tenute, per mandato e ruolo istituzionale, a confrontarsi con i media e con l’opinione pubblica; il Molino in quanto realtà antagonista, può fare – assumendosene poi le conseguenze – quello che meglio crede. Molino e autorità hanno storie, ruoli e responsabilità molto diverse: non si può metterle sullo stesso piano ed esigere che assumano linguaggi e pratiche comunicative simili.
Come arrivare a un possibile “dialogo”? E’ il vero, grande problema cui nessuno, per ora pare trovare una soluzione. In molti ne invocano la necessità e certamente va detto che, al punto in cui si è arrivati oggi, urgono soluzioni concrete e possibilmente condivise. Forse, però, si tratterebbe di partire dal tenere in debita considerazione la storia di queste forme di antagonismo sociale, e con tutte le contraddizioni del caso, il loro valore. Un riconoscimento in questo senso potrebbe portare ad un tentativo fruttuoso di far comunicare due realtà così distanti e diverse.
Olmo Cerri è regista e documentarista
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