Ripensare e costruire una frontiera “liquida”
Fra gli effetti della pandemia, quello della necessità di una risposta “globale” ai problemi comuni, anche dentro e intorno ad un confine
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Fra gli effetti della pandemia, quello della necessità di una risposta “globale” ai problemi comuni, anche dentro e intorno ad un confine
Nei mesi scorsi si sono tenuti due importanti convegni in Ticino (a Chiasso e a Lugano) dedicati al tema del confine, della frontiera come muro o come cerniera, come sbarramento o punto di passaggio; un tema che ha evidentemente da sempre caratterizzato la storia del nostro Cantone e che si fa particolarmente rilevante se pensiamo alle tante domande poste in questi ultimi due anni dagli effetti “globali” della crisi pandemica.
In due sedi significative come il MAX Museo di Chiasso e il MUSEC di Lugano, si è cercato recentemente di creare nuove occasioni per promuovere incontri e confronti su una questione che è cruciale sotto tanti punti di vista: sanitario, certo, ma poi (e lo sappiamo bene) politico, sociale, culturale ed economico (pensando al tema del frontalierato); e ancora urbanistico e architettonico, ambiti in cui “lo spazio” di frontiera è al centro di sviluppi molto interessanti.
È proprio un’architetta, Katia Accossato, ad aver coordinato, insieme ai direttori dei due Musei e al loro staff, i due eventi citati. Il primo a Chiasso si inserisce nella stagione espositiva e artistica del Centro Culturale Chiasso che nel 2020 ha avuto come tema conduttore proprio il confine. Dal convegno è nato da poco un primo frutto editoriale, un volume edito da Giampiero Casagrande con il Centro Culturale Chiasso, che con il titolo “Il confine italo-svizzero in epoca globale”, raccoglie una serie di interventi al convegno del 25 settembre 2020.
Come scrive Nicoletta Ossanna Cavadini nell’introduzione del libro,“nella società odierna, sempre più liquida, come ha evidenziato il sociologo Zygmunt Bauman, il confine può separare o avere una funzione osmotica, invitando a scambi di idee e contribuendo a risolvere problemi comunicativi, energetici e di mobilità”. Nel caso specifico, sotto la lente è il nostro confine con l’Italia, ” ‘confine’ nel suo senso più ampio (fisico e mentale) e declinato attraverso la prospettiva dell’arte, del teatro, della danza, della grafica e della comunicazione visiva contemporanea”.
Ma di particolare rilievo ci pare l’attenzione rivolta all’analisi degli “spazi di confine” dal punto di vista geografico, dell’orografia, della pianificazione territoriale, dell’urbanistica e più propriamente dell’architettura, che sono il campo d’indagine di cui Katia Accossato ha dato conto a margine del tavolo di lavoro organizzato la scorsa estate al Museo delle Culture di Lugano con la collaborazione dell’Associazione Architektur & Kultur della “Società svizzera degli ingeneri e degli architetti” (SIA).
Da un suo testo concepito proprio per l’occasione e pubblicato in tvsvizzera.it proponiamo un ampio estratto, che ci sembra assolutamente il caso di riprendere, per gli stimoli e le suggestioni che offre.
“Sediamoci intorno a un grande tavolo a forma di ferro di cavallo, srotoliamo la mappa con la fascia di confine fra il Ticino, il Piemonte e la Lombardia e prendiamo ago e filo. Come sappiamo il confine effettivamente segue, tagliando a est e a ovest il lago di Lugano, in modo molto irregolare, la forma di un cono a testa in giù che punta sulla pianura.
Iniziamo quindi a ricucire quei territori storicamente e culturalmente omogenei tra i quali la frontiera, in diversi punti, ha incuneato i suoi ampi spazi tecnici, aridi e “burocratici”.
Il Monte San Giorgio, patrimonio Unesco, riguarda i due versanti, il museo Vela di Ligornetto ha molto in comune con il Museo Butti di Viggiù, Chiasso e Ponte Chiasso potrebbero avere al posto della dogana commerciale un parco, Ponte Tresa Italia e ponte Tresa Svizzera potrebbero avere una piazza in comune. Tanti altri paesi, borghi e città potrebbero dialogare con maggiore determinazione per perseguire obbiettivi comuni e organizzare veri e propri gemellaggi.
È possibile abitare la frontiera? Si può estendere il significato di abitare in modo da andare oltre al semplice concetto di “risiedere”, stimolando una partecipazione attiva ai luoghi e una dimensione pubblica degli spazi?
L’idea di abitare la frontiera, ben inquadrata da diverse correnti filosofiche e diffuse da tempo anche nelle scuole di architettura, nasce dal fatto di riconoscere un preciso carattere di alcune aree di confine come quella della Regione dei Laghi.
I recenti lockdown ci hanno fatto percepire la città e il territorio in cui viviamo in modo molto diverso. L’epoca pandemica ha riportato l’accento sull’aspetto tecnico e burocratico del confine, inteso come limite, inasprendo radicalmente il suo carattere di separazione tra Stati. Una cultura dell’abitare basata su una visione più complessa della situazione deve portare a ripensare in altri termini il “rito di passaggio” tra un luogo e l’altro, ripensando lo spazio di connessione come spazio pubblico e partendo da un’idea qualitativa dell’architettura di confine.
Proviamo a immaginare nuove dinamiche della terra di confine, a partire da alcuni interrogativi.
Quale sfida e occasione si presenta oggi in campo globale e nell’ambito della Regio Insubrica? C’è uno sguardo rivolto Oltralpe ma si aprono anche nuovi scenari verso Sud. Quali? Che ruolo giocano le grandi infrastrutture le cui trasformazioni sono ancora in corso? Come integrare una nuova filosofia di mobilità lenta e sostenibile? Quali altri vantaggi possiamo immaginare con la creazione di nuovi spazi condivisi lungo la frontiera? Cosa accomuna la Regio Insubrica ad altre macro-regioni europee?
L’accelerazione del processo di integrazione europea e della globalizzazione in generale ha portato a cambiamenti profondi già a partire dagli anni ’90 del secolo scorso anche sul territorio svizzero. È il momento di riprendere il dibattito sul tema dell’identità locale e internazionale nell’ambito delle forti trasformazioni sociali ed economiche e sullo sfondo della battaglia contro i cambiamenti climatici (comprese le conseguenze in campo sanitario e migratorio), fenomeno per definizione globale. Il paesaggio dei laghi è il patrimonio comune dell’area di frontiera e deve essere inteso come principale strumento di rigenerazione di alcune aree fortemente compromesse.
È proprio in questo quadro dinamico e in trasformazione, che abbiamo imparato a conoscere durante la recente epoca pandemica, che l’architetto, il geografo, lo storico e l’economista, insieme a tante altre figure disciplinari devono tornare ad esplorare nuove possibilità di organizzare il territorio di frontiera. L’identità dei luoghi è forte ma, nello stesso tempo, molto “fluida”, nei nostri studi non è mai incasellata in interpretazioni rigide e schematiche.
Si crede nelle potenzialità delle aree di confine in senso ampio, proprio in virtù delle differenze presenti sul territorio. Differenze preziose, da preservare e da studiare. Differenze sempre in evoluzione, che si modificano nello spazio e nel tempo, necessarie al mantenimento di quel dinamismo, proprio dei luoghi altamente civilizzati, che negli ultimi anni è stato seriamente minacciato da visioni politiche troppo provinciali e conservatrici”.
Katia Accossato
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